L’organo è un retaggio del passato e non accenna ad evolversi; il manufatto artigianale nella nostra società sta scomparendo; lo strumento-copia indica una fine non ha corrispettivo sonoro di riferimento; l’organo è avulso dalla società l’approccio storico-filologico è in sé cultura dell’inautentico soffre dei medesimi anacronismi della classica: la musica d’organo non si riascolta, non si memorizza e parla una lingua d’altri tempi; la riproposizione audio/video ne rende inutile il live non ha istituzione che lo patrocina né possibilità di resa economica
l’organo nel rito non produce cultura
Prospettive:
L’organo può incontrare la modernità, rinnovare e arricchire la sua tavolozza con suoni nuovi
deve produrre grande musica su strumenti che ne diano la possibilità; non è il tipo di organo o di trasmissione o di tocco impiegati a rendere importante una musica
può tentare di cercare parentele musicali con la realtà o attivare collaborazioni inedite
deve assumere i tempi e i modi della modernità: se il momento concertistico non coinvolge, si possono cercare altri momenti, altri passaggi, altre connessioni con il vivere
occorre rispettare se stessi più che un autore antico o moderno: altro è fare cultura e altro è vivificare il passato e renderlo compatibile con il presente; una cosa è “mettersi nei panni di”, un’altra è esprimere l’autenticità
il rito come approccio funzionale positivo
Tracce per un’analisi
Il mondo dell’organo in Italia -ma il discorso potrebbe estendersi a tutta la musica cosiddetta classica- si trova oggi ai margini della cultura e della vita musicale; in passato non ha avuto fortune maggiori, ma certo vi sono stati tempi in cui il dialogo fra uno strumento secondario come l’organo e la grande musica era diretto e paritario; questo scritto in forma di appunti vuole essere uno stimolo a guardare il presente e a ipotizzare un cammino per il futuro, immaginando che si può pensare differente e cercando direzioni di senso.
L’organo tradizionale a canne non si sta evolvendo in nessuna direzione, viene costruito ancora secondo metodi artigianali, presenta registri consegnati dalla tradizione, configura i corpi sonori come nel passato, segue tipologie note e conosciute; tranne esperimenti rarissimi (che in ogni caso estendono le possibilità senza rinnovare la sostanza), vi è un mantenimento del passato per ciò che riguarda il suono e un ritorno generalizzato al metodo costruttivo antico dal punto di vista organologico. Ciò è del tutto contro l’andamento della storia che da tempo va sostituendo il prodotto artigianale con quello confezionato industrialmente: se l’organaria vuole ripristinare i sistemi tradizionali va contro l’evoluzione dei nostri tempi, che da parte loro si muovono, come in ogni momento della storia passata e presente, verso l’aggiornamento economico dei materiali e delle tecniche; ne risulta che i costi di un organo sono altissimi, che ciò che è prodotto “a mano” ha tempi lunghissimi, che le commissioni di nuovi strumenti pertanto sono isolate e dovute in genere a privati e che ci si rivolge preferibilmente ai restauri, possibili a loro volta finché ci sono finanziamenti dati dall’alto; questi vengono decisi solo basandosi sul principio della conservazione e dunque ingessando un prodotto del passato nel passato e operando con sistemi propri di quel passato; non succede più (benché vi siano eccezioni), che una comunità spenda cifre per avere un organo nuovo o che si esiga l’ultimo tipo di strumento o che si chieda un rinnovamento o che un organista chieda determinati registri perché vi sono novità di moda: tutto ciò è memoria di tempi in cui l’organo era vivo; le stesse esigenze dell’organista devono coincidere con le direttive delle sovrintendenze o non devono neppure sussistere. Il restauro e la stessa costruzione di organi-copia o copie mirate indicano una fine: l’organaro ripropone un prodotto o copia uno strumento sulla base della convinzione che il passato sia migliore del presente e che la musica che si faceva su quello strumento sia più valida della presente. L’attualità scompare del tutto. Ma il copiare o il ripetere è segno di assenza di personalità -se non di banalità concettuale- e il manufatto-copia resta isolato e calato dall’alto come decisione culturale di pochi, non crea né condivisione né diffusione; molti organari che operano restauri non provengono da scuole o ditte né hanno frequentato botteghe storiche, e sono giovani e giovanissimi: la loro professione si fa sul restauro (cioè sullo strumento già dato, esaminabile e riproducibile) di cui assimilano la tipologia costruttiva per riforgiare nel caso di strumenti nuovi, generalmente piccoli, strumenti programmaticamente identici a ciò che si è analizzato nel restauro.
La vera evoluzione degli strumenti tradizionali a canne è stato lo strumento elettronico, come lo è il piano elettrico per il pianoforte, la chitarra elettrica per la chitarra ecc. Chi si è formato sulla musica del passato (la correlazione è evidente) chiede uno strumento del passato; chi vive l’epoca presente non ha bisogno di suoni tradizionali; chi vuole riproporre il passato vuole il suono acustico dal vivo, mentre chi segue la musica di oggi non ha alcuna pregiudiziale sulla produzione del suono. Come l’organo, anche il pianoforte, il violino ecc. sono giunti ad una fine di una storia: se non fosse che sono impiegati nella esecuzione di musica classica, dove vengono usati in modo originale e stabile? E inoltre, che cosa possono dire di nuovo dopo che sono stati usati in tutte le possibilità sonore possibili immaginabili e in tutte le soluzioni armoniche? Come lo strumento classico è costoso e resistente, così il suo derivato moderno segue le leggi della breve durata e del costo ridotto. Ma la qualità, relativamente all’ambito di riferimento, può essere in tutti e due i prodotti, ciascuno dei quali non è da valutare secondo confronti astratti, ma in rapporto alla richiesta musicale: per l’organista classico la qualità è finta nello strumento elettronico, mentre il musicista commerciale trova eccessiva e fuori tempo la qualità di uno strumento a canne. Il problema è che il primo fa musica fuori da qualsiasi criterio economico mentre l’altro produce musica in base a criteri di fattibilità concreta, di luoghi in cui fare musica e di guadagno. Inoltre il musicista classico ama il suono “vero”, l’altro cerca un suono funzionale alla sua visione estetica: ma ciò è solo in relazione alla musica che si fa: se si dà per scontato che la musica per così dire “vera” deve essere quella consegnata dal passato, si potrà procedere all’infinito ripetendo lo stesso repertorio sugli stessi strumenti, se si prova a immaginare altra musica o altre interpretazioni, forse anche lo strumento può cambiare e rinnovarsi; inoltre, occorrerà vedere se in futuro l’autenticità di un suono dal vivo avrà la stessa importanza di oggi e se non sarà più questione di musica che di supporto musicale; proviamo a immaginare la pessima orchestra che avevano a disposizione Beethoven o Bach e guardiamo la loro musica: evidentemente la qualità della musica in sé poteva trascendere il suono; proviamo a immaginare Bach che suonava i primi fortepiano, difettosi e rudimentali, mentre ci improvvisava una fuga a 6 voci. Il musicista autentico trova la musica anzitutto dentro di sé e non è la qualità dello strumento a fare in ogni caso il musicista.
L’organo non ha un corrispettivo culturale di riferimento ed anche in ciò rivela un isolamento e una fine; è stato lo specchio della musica fin dalla sua nascita: della musica di Vivaldi all’epoca di Bach, della forma sonata pianistica in Mozart, del melodramma nell’ottocento, della musica tardoromantica con Reger; oggi non vi è alcuna relazione fra l’organo, strumento ripetitore ed accompagnatore per eccellenza nella sua storia (sappiamo bene come i suoi registri siano stati la traduzione viva di volta in volta degli strumenti dell’orchestra) e il mondo intorno. Oggi l’organo non traduce nulla, non riporta alcun suono della modernità, non ne ripercorre le musiche; è strumento che serve perlopiù per ripetere il passato, ma che spesso non riesce a convincere del suo stesso passato; finché suona Bach, Mozart, Mendelssohn, Franck, Reger, fa almeno risuonare -con le difficoltà di ricezione che ci sono in ogni caso- la grande musica degli autori che hanno fatto la storia e hanno composto esattamente come hanno composto per i grandi complessi orchestrali e in ciò può svolgere una funzione culturale in senso lato: il resto è letteratura secondaria che nella storia ha avuto un peso relativo e tale resta anche a distanza di tempo [1]. Ne deriva, come succede per la classica, che dell’organo non si parla, non si dibatte, non si produce cultura con esso, non si accede ai media, non si aggancia se non pochi specialisti. La presenza di pubblico ai concerti, già di per sé esigua in qualsiasi modo si leggano i numeri, è normalmente gratuita: già questo fatto dimostra un non-valore.
– Il fatto che non vi sia una istituzione che confermi un’importanza rende evidente che il mondo dell’organo è lasciato a sé: se non c’è alcuna valutazione economica delle persone e della musica che vi si fa, non c’è alcun valore né pratico né culturale, perché non c’è richiesta esplicita del suo esserci; né c’è rapporto fra l’enorme mole di studio e di difficoltà che l’organista deve affrontare nella sua formazione e ciò che può ritornagli sotto forma di compenso; ciò indica un sopravvivere più che un vivere.
La chiusura sull’approccio filologico (ripetere esattamente una partitura, ipotizzare diteggiature antiche o registrazioni d’epoca, ecc.) rende il mondo dell’organo un mondo artificiale; non solo ci si trasporta in un’altra epoca, ma si rinuncia a sé stessi in nome del rispetto dell’autore; questa diventa un’operazione culturale in senso stretto: si riporta musica di altre epoche e si vuole comunicare un pensiero di altri tempi. Come per la musica classica, però, è il riascolto che crea abitudine e assimilazione: la scarsità di esecuzione di una musica rende il momento esecutivo labile e, tranne nei casi di musiche-evergreen, tale da non lasciare tracce nell’ascoltatore. Il concerto crea certo l’idea di bellezza, ma la ricezione è episodica e non entra nel consumo abituale.
Forse è proprio da imputare alla cultura filologica degli organisti-storici il fatto che l’organo non manifesta alcuna prospettiva diversa da quella museale, e che i giovani organisti non sappiano orientarsi; possiamo fare qualche esempio: nel momento in cui si prospetta a loro che il meglio è rappresentato da Frescobaldi, Bach, Buxtehude e Franck (già una sequenza del genere è indicativa di storicismo e di un’assenza di poetica), che motivo c’è di fare altra musica? Se si parte dal rispetto dell’autore, allora occorre conoscere l’autore, quindi assumere la sensibilità di quello, il suo modo di pensare, di suonare e dunque ciò che chiamiamo interprete è in realtà uno psicologo che opera sui dati di una partitura; ma le condizioni attuali non possono che essere differenti perché la storia muta e nessuna fedeltà è possibile; si insegna il rispetto del suono che si usava all’epoca e dunque occorre cercare un organo che deve essere quello di cui disponevano quegli autori; ma se non vi sono gli stessi registri non sarà possibile l’esecuzione e dunque si procede per approssimazione e dubbi; si vuole la super-specializzazione, ma non si trova lo strumento mirato se non rarissimamente, spesso il pubblico non recepisce, e così, via. Il fatto di vivere di una storia ideale costituita da capolavori ritenuti eterni e assolutamente validi, ciascuno differente dall’altro per concezione, è al di sopra della possibilità di fattibilità secondo il criterio filologico e al di sopra della stessa ricezione. Il godimento estetico di una musica di Franck la si ottiene studiando in continuazione Franck; ciò implica che l’ascoltatore faccia lo stesso percorso perché costui abbia la stessa percezione; ma l’attualità musicale ha altri modi di decodifica e non c’è da illudersi che la cosiddetta ignoranza del pubblico (foglia di fico dell’esecutore per vivere all’ombra dei grandi del passato) debba diminuire: il pubblico semplicemente tende a ignorare ciò che trascende le sue possibilità recettive, a loro volta dettate più dal tempo che si vive che da una volontà di adeguamento, e apprezza ciò che colora il suo tempo con senso, al di là della sua provenienza; per fare ancora un esempio, un brano di lunga durata non viene spesso sopportato perché il dinamismo di oggi chiede tempi concisi e il discorso lungo e complesso che riempiva le settimane -per il resto silenziose- di un ascoltatore dei tempi di Franck, oggi viene sepolto dall’enorme quantità di musica di ogni genere che fa da sottofondo al vivere quotidiano. Semplicemente la musica di Franck risponde a canoni retorici sorpassati, benché si possa considerarla idealmente assolutamente valida.
In realtà il rispetto dell’autore è impossibile perché in ogni caso si compie un falso, soggettivo e oggettivo: soggettivo, perché si attua una sostituzione di personalità, oggettivo, perché nessuno può dimostrare nulla riguardo all’esecuzione di un brano; né le fonti, se esaminate criticamente, possono dare qualche certezza per la cosiddetta prassi esecutiva né vi è strumento che sia giunto intatto fino a noi; non vi à alcun manufatto integro del passato più o meno lontano e quando si ricostruisce un registro o una parte di esso, con le stesse misure ecc., si compie un falso senza poter dimostrare che quel determinato registro suoni come all’epoca di riferimento. Anche il semplice fatto che di un brano vi siano interpretazioni diverse se non opposte, dimostra che la filologia è un approccio che si ammanta di scientificità: in realtà è il tentativo di rivestirsi di musica d’altri secondo un’idea di aderenza senza poter logicamente dimostrare alcunché; come noi siamo uno nessuno e centomila per i nostri conoscenti, così quell’autore del passato sarà uno nessuno e centomila per gli esecutori che lo ripropongono; per contro la “fedeltà” è da intendersi diversamente: ogni interpretazione che segue una configurazione scritta è sempre fedele, perché sono le note così disposte e correlate in quelle proporzioni che parlano di Bach, qualsiasi siano i dettagli, -che Bach stesso, oltretutto, mutava a seconda delle circostanze, come dimostrano le diverse versioni di alcuni suoi brani o le difformità fra le copie. Ma, come ognun vede, questa sarebbe la fine della filologia, perché Bach resterebbe tale sia sotto le dita del filologo che nell’adattamento di un complesso rock. Il risultato della filologia è che il musicista, non ragionando sulla base di un disegno originale di musica e di suono ma su dati storici, è, come i musicisti della classica, bloccato dentro la sua ottica storica e organologica e non sa come rispondere alla mancanza di ricezione; se al moderno organista togliete la partitura, resta nulla perché egli è tutto dentro alla storia. Lo storicismo del Novecento, complice una musica moderna in crisi di linguaggio che non ha trovato positive corrispondenze di pubblico, ha sostituito una scuola di musicisti-compositori-improvvisatori e un’ arte organaria che all’inizio del secolo avevano aperto strade europee. Il sapere (o meglio, il pensare di sapere) come si suona Frescobaldi porta solo a suonare Frescobaldi, come se vi fosse una enclave spazio-temporale mitizzata, e il ri-costruire l’organo di Frescobaldi elude il modo di ascoltare la musica oggi perché è calibrato sul tipo di ricezione ipoteticamente databile a quell’epoca; sarebbe come se un oratore di oggi usasse il linguaggio di un’altra epoca. Non c’è da stupirsi se il pubblico non segue il mondo dell’organo.
I mezzi di riproduzione audio/video di oggi annullano la necessità della musica dal vivo: la differenza fra la performance dal vivo e la registrazione è nulla; fino a che ci sarà sensibilità alla musica fatta dalla persona di persona, si potrà apprezzare, come oggi si apprezza, il musicista dal vivo; la qualità audio oggi però è tale che la riproduzione quasi di norma supera in qualità l’originale, con strumenti nel meglio dello loro possibilità e organisti che eseguono con perfezione assoluta. Inoltre è da aggiungere il CD (o il supporto moderno o il DVD) toglie il bisogno di musica e di assistere dal vivo; la cultura personale è già costituita dal CD/DVD, mentre il concerto dal vivo aggiunge un “di più” non essenziale, tanto più che la musica non muta rispetto all’originale; al confronto un cantante rock riempie gli stadi per la musica dal vivo: dopo che la sua musica si è diffusa, il momento dal vivo realizza una conferma rituale e sociale, in cui neppure la fedeltà all’originale diventa importante. Il fatto che si dica che ogni volta nella classica un’esecuzione è differente dall’altra, è un mito da sfatare e vale solo per i compositori-esecutori, gli improvvisatori o i creatori, altrimenti in generale è più facile che il live sia peggio della riproduzione e le piccole differenze eventuali non aggiungono né tolgono nulla alla sostanza dell’autore.
L’organo nel rito è diventato un supporto di scarso valore, culturalmente impossibilitato a fare testo; se suona da solo non ha spazi e mezzi in cui esprimersi (i pochi istanti non permettono presenze apprezzabili); se l’organo accompagna un coro, generalmente si configura in modo assai poco significativo. E’ certamente possibile elevare la presenza dell’organo nel rito in molti modi, sul modello bachiano per esempio, ma il percorso di studi è tutt’altro che quello attuale e, senza un apprezzamento adeguato, la sua difficoltà rende il proposito inattuabile.
La presenza dell’organo nel rito è, perlopiù, evocativa e di sostegno, ma soprattutto non è richiesta come apporto di qualità e di professionalità. Ciò che non è richiesto, neppure può avere valore. Il fatto che la Chiesa non è in condizione o non intende dare direttive alla musica nel rito -perché ciò impegnerebbe economicamente-, se non per principi generici e aperti a qualsiasi soluzione, si risolve nell’accettare qualsiasi situazione, a volte mantenendo un’aderenza alla tradizione, senza spingere sulla qualità e quantità, a volte cercando valenze pastorali più moderne; neppure la Chiesa interviene a formulare richieste di interazione fra strumento e liturgia, come è avvenuto nel passato, privilegiando il principio della conservazione e dell’intervento economico posto in essere da enti esterni accettato senza colpo ferire.
L’organo spesso è difficile da inserire nella liturgia perché è immodificabile, non agganciato alla realtà perché si comporta secondo canoni di altri tempi. Il parroco che compra uno strumento elettronico o che invita le chitarre a suonare nella liturgia, non avrà la nostra approvazione, ma si comporta secondo logica, sia perché vuole l’organo al servizio della liturgia, hic et nunc, sia perché vuole che la cultura moderna sabbia un aggancio di dialogo con la chiesa -ciò che è stata la norma fino al tutto il XIX secolo-, e tanto l’uno che l’altro, nel loro genere, possono presentare qualità e arte. Se il parroco usa strumenti di riproduzione del suono per diffondere l’organo segue semplicemente una possibilità della modernità a cui l’organista che suona solo musica scritta -che può essere sostituita dal suono registrato di un CD- non sa dare alternativa.
L’impiego del musicista organista di chiesa è di scarsa entità: il fatto che il suono sia così poco presente e che i suoi interventi siano quantitativamente assai poco rilevanti non sono il frutto di un preziosismo, ma di un’assenza; la periodicità di interventi assai stretta dei tempi di un Bach, Haendel, Mozart ci lascia stupiti per la loro immensa mole di lavoro; in realtà era la necessità di un “esserci” e l’apprezzamento di un suono per cui loro operavano come oggi qualsiasi musicista delle musiche di consumo, ossia suonavano molto e a lungo, senza mai cedere sulla qualità di ciò che facevano, perché semplicemente la concorrenza basata sul compenso creava competizione verso il meglio; l’ora di concerto ogni tanto o il mero sostegno al canto non è neppure paragonabile alla presenza costante e accurata, magari spettacolare, di un musicista di una volta e del musicista commerciale di oggi, esatta immagine moderna di quello. La presenza assidua e qualificata di un musicista o di un genere musicale, ovviamente inquadrati e appoggiati istituzionalmente, sarebbe il segno di un’importanza della musica.
Prospettive
Anche qui cerchiamo, in forma di appunti, qualche idea per non finire asfissiati da un mondo musicale che si sta avvitando su sé stesso: il passato è stato vagliato in ogni aspetto e nessuna certezza è stata dimostrata, gli strumenti si vanno ricostruendo in modo del tutto avulso dalla sensibilità moderna, l’organo non comunica con nessun mondo, gli organari non ascoltano gli organisti, gli organisti non sono presi in considerazione dalla Chiesa, gli organologi fanno restaurare strumenti che risultano uguali in serie, ritornano a connotazioni provinciali, e troppe volte restano muti aspettando il prossimo restauro. Pure, nel rispetto dell’esistente, è possibile individuare qualche cosa di nuovo.
Poiché la tecnologia oggi sta costruendo connessioni e vicinanze, il ricorso ai suoni più moderni può intervenire nel cuore di un manufatto che deve ritrovare una voce in sintonia con i tempi senza stravolgere la propria. Il suono riprodotto e il suono tradizionale possono convivere e arricchirsi, trovando risorse finalmente nuove. La modernità non fa caso a quale suono si sta impiegando per suonare un Adagio di Bach se questo si sintonizza sulle sue onde perché vuole solo musica che parla all’uomo. Come nel passato un suono si è esaurito e si sono creati nuovi strumenti, così mutando il suono si aprirebbero prospettive inedite.
Sempre più il mondo organistico si chiude su problemi come “tocco” (di cui non parlano i trattati antichi), aderenza alle fonti (che non danno alcuna indicazione se non locale e approssimata), prassi (ricostruzioni a posteriori basate su descrizioni spesso insufficienti di musicisti di secondo piano); forse è meglio operare per la grande musica, quella capace di stupire e di coinvolgere, che sia barocca, antica o moderna; non è il supporto che fa la musica: su qualsiasi strumento il musicista deve riuscire a convincere; sia che il supporto sia meccanico che di altro tipo, conoscendo i segreti del suo strumento in senso ampio; Bach resta sempre Bach e il pubblico lo sente se è reso con musicalità, con qualsiasi strumento e colore; lo strumento meccanico non dà valore aggiunto (se non la durata nel tempo al manufatto), mentre le altre trasmissioni avvantaggiano la spettacolarità, ma la resa musicale va valutata solo alle orecchie dell’ascoltatore. In sostanza, la musica deve dispiegarsi come musica su qualsiasi supporto, e il musicista deve riuscire a comunicare su qualsiasi strumento adeguando di volta in volta le sue conoscenze.
Solo se l’organo collabora con musicisti legati all’attualità ha qualche possibilità di futuro; il confrontarsi con strumenti, suoni, abitudini e generi nuovi può immettere linfa nuova, il cercare atteggiamenti musicali differenti può aiutare a trovare nuove configurazioni più legate al modo di esprimersi di oggi.
Come nel campo della classica, il momento del concerto può restare privilegiato, anche se non si vede all’orizzonte una ripresa della frequenza di pubblico; ma forse occorre ripensare la comunicazione per il semplice fatto che oggi è cambiata la comunicazione stessa e convincersi che anche qui la tecnologia può fare da supporto (Internet, reti), e che il cercare altri modi di interazione e di presenza non può che essere a favore dello strumento, non solo a livello di supporto di diffusione, ma nel cuore stesso della musica, nei tempi e nelle forme dell’attualità; la musica è il pubblico a imporla, non il musicista a deciderla, perché costui ha bisogno che il pubblico torni, mentre il pubblico va solo dove lo porta il senso. La filologia resterà come un arricchimento (e certo possiamo affermare che più di quanto ha reperito fino ad oggi non troverà), ma il gioco è fra esecutore e ascoltatore ed è la musica a valere, nella misura e nelle facoltà recettive possibili di volta in volta.
Se l’organista segue l’oggi e ne interpreta gli umori può cercare qualche inserimento positivo; l’autenticità si gioca non nel “mettersi al posto di”, non nell’interpretare sempre gli stessi brani, ma nel giocare in prima persona con abilità proprie. Il musicista commerciale che si crea da solo il proprio modo di far musica dimostra che si può pensare in modo originale, mantenendo differenze e caratteristiche: non è necessaria la complessità per comporre o improvvisare, ma certo c’è bisogno di un pubblico che ascolta e si esprime. La fruibilità e la disponibilità significano rispettare sé e l’ascoltatore, saper mutare all’occorrenza, saper convincere quando si cerca la profondità. Tanto il passato che il presente devono essere filtrati dalla possibilità di aderire ad una storia ma nello stesso tempo di evolverla.
Il rito è ancora oggi quello che dà senso all’organo: proprio l’essere funzionale pone l’organista in un privilegio che altri non hanno (si pensi alla musica contemporanea che mette in scena il non-senso della musica assoluta divenuta rappresentazione di un vuoto e di un autoriferimento improduttivo di comunicazione); dunque, prima viene l’essere utile nel senso più nobile del termine, partendo dal lavoro periodico e umile, e poi verrà l’essere culturale trovando le occasioni per dare consistenza e conferma alla sua presenza; ma solo se l’organista è originale e di volta in volta aderente al Testo e all’Azione liturgica può conferire un apporto inedito e non banale; nel momento in cui suona musica del passato forza i tempi e crea inserimenti talvolta distonici perché ciò che suona è fuori dal tempo e delle tematiche; ma se egli si pone in sintonia con il rito e ne esprime le valenze riposte seguendo le peculiarità del rito stesso traducendole in figure musicali simboliche -come avveniva in epoca barocca normalmente-, il suo apporto non sarà messo da parte facilmente ed anzi, il suo esserci diventa una explicatio retorica di volta in volta nuova; la sfida è rendere la musica qualitativamente alta (magari questa fosse la richiesta della Chiesa: i fatti sono di tutt’altro segno) e avere chiaro che l’arte può essere un servizio e può obbedire a una funzione, come è avvenuto nel passato. Ciò è possibile non solo ricorrendo a musica scritta o tradizionale, quanto piuttosto incontrando l’attualità e non negandosi ad essa, perché anche nella musica di consumo vi è qualità, basta saperla vedere; naturalmente bisogna tenere distinti ambiti che non devono essere confusi con troppa facilità, ma il mondo dell’organo, da tempo separato da tutto il resto, non si è accorto che la musica è vitalissima nella società e che se ne fa con parole e musiche rispondenti a criteri artistici; le categorie di arte cambiano, ma l’arte è nella essenza dell’uomo – neppure il giovane chiuso nel suo Ipod ne può fare a meno- e il desiderio di ritornare ad essere presenti nel mondo di oggi passa solo attraverso la conoscenza e la disponibilità a mutare e ad inserirsi nel vivo della modernità.
FAUSTO CAPORALI
NOTE
[1] Ciò vale, per esempio, per la musica organistica italiana: a fronte di un’organaria generalmente di buona qualità, per quanto provinciale e basata sulle piccole dimensioni, la produzione per organo non accede, tranne qualche caso isolato -Frescobaldi, Marco Enrico Bossi-, a importanza universalmente apprezzabile.
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