Arte Organaria III – 2011

Anche una disamina cronachistica dei fatti inerenti la vita musicale organistica fra gli anni ‘70 e la fine del XIX secolo basterebbe a porgere alla nostra attenzione il problema che si dovette affrontare in Italia da parte dei più avveduti organisti-musicisti del tempo: quello di una nuova identità culturale e, correlativamente, quello squisitamente linguistico del modellamento di un rinnovato lessico musicale; in altre parole, di pari passo con la riforma degli organi, si presentò la necessità di perseguire una sorta di rifondazione musicale in relazione a istanze non più derivanti da compiti divulgativo-restitutivi di materiali lirico-teatrali, ma da una più originale e personale raffigurazione ideativa, da una conoscenza estesa di portati culturali europei e da una più solidale connessione con la collocazione liturgico-cultuale.
Nella prima metà dell’Ottocento non esisteva una scuola istituzionalmente destinata all’organo, l’insegnamento era impartito nella classe di pianoforte e gli organisti erano pianisti, o, assai diffusamente nelle sedi decentrate, semplici dilettanti [1]. Nel 1850 venne istituita ufficialmente la scuola d’organo presso il Conservatorio di Milano, già tenuta da Francesco Almasio dal 1846; nel 1860
l’insegnamento dell’“organo e pratica di accompagnamento” diventava una materia principale nel Regio Istituto Musicale di Firenze e veniva affidato a Giovacchino Maglioni; nel 1872 il Real Collegio di Musica di Napoli adottava uno statuto in cui la scuola d’organo era annessa a quella di pianoforte, come pure il Regolamento ed Organico della Regia Scuola di Musica di Parma del 1876. Pesaro vide sorgere una classe d’organo presso il Liceo musicale con Vincenzo Petrali come insegnante nel 1882 [2], a Genova nell’Istituto di Musica fu istituita una scuola di “Esercitazioni elementari d’Organo” nel 1884; nel 1886
apparve a Roma presso il Liceo Musicale annesso alla R. Accademia di S. Cecilia la scuola d’organo affidata a Remigio Renzi, a Parma apparve nel 1888 con Guglielmo Mattioli, a Napoli nel 1890 con Marco Enrico Bossi, a Torino nel 1892 con Roberto Remondi.
Non solo si andavano istituendo classi di organo, ma si andava delineando la didattica dell’insegnamento organistico attraverso un dibattito fra addetti ai lavori [3]; dal confronto restava prioritario che l’allievo venisse istruito preventivamente nel pianoforte, nell’armonia e nel contrappunto [4].
Di grande importanza fu la stretta sutura che si manifestò fra l’acutizzarsi di un’esigenza di reazione all’imperante sottomissione al melodramma, fonte pressoché esclusiva di materiale esecutivo e la lenta ma inesorabile maturazione di sensibilità cultuali più meditate. Ne è traccia evidente il fatto che il movimento di riforma della musica sacra, che ebbe fisionomia marcatamente culturale, e si divulgò dal 1877 dalle pagine del periodico Musica Sacra agglutinandosi nel 1880 nell’Associazione Italiana Santa Cecilia, fu propugnato da esponenti di spicco della cultura musicale italiana che si trovarono ad essere frequentemente direttori e docenti in Istituti, Conservatori o Accademie di tutta Italia: Luigi Ferdinando
Casamorata a Firenze, Giuseppe Gallignani a Parma e Milano, Giovanni Tebaldini a Parma, Marco Enrico Bossi a Napoli, Venezia, Bologna e Roma, Guglielmo Mattioli a Parma e Bologna, Remigio Renzi a Roma, Vincenzo Petrali a Pesaro, Roberto Remondi, Dino Sincero, Ulisse Matthey a Torino, Luigi Bottazzo a Padova, Oreste Ravanello a Venezia e Padova, Arnaldo Galliera a Parma, Giuseppe Cotrufo a Napoli, per citare soprattutto i musicisti-organisti.
L’auspicio che poco a poco diventò chiara consapevolezza in questa comunità di riformatori è presente in nuce una prima volta nello Statuto del Regio Istituto Musicale di Firenze, laddove vi si invita i docenti ad addestrare i giovani a suonare l’organo “non tanto per ciò che concerne il meccanismo, quanto per ciò
che ha relazione alla convenienza dei concetti” [5] e subito dopo si chiede l’addottrinamento per accompagnare “convenientemente” il canto fermo: quello che si intende perseguire e si perseguirà, dunque, è l’indipendenza e la nobiltà di atteggiamenti e di concezione artistica unitamente ad un confronto sempre più fitto con autori antichi e recenti del tutto estranei al melodramma. La strada per arrivare ad una emancipazione dal gusto corrente non fu né breve né facile, presentandosi già da allora, sia pur nel limitato campo organistico, una dicotomia fra pubblico e artista, fra intellettuale e fruitore, fra musica di consumo e musica di concetto, fra rispecchiamento dell’epoca e autonomia ispirativa, fra tentazioni secolariste e chiusure conservatrici, che probabilmente hanno tracciato a poco a poco un solco dirimente, non più sanato, nella seguente storia della musica organistica e sacra.
Dal punto di vista organistico e organologico fu significativo l’acceso dibattito che si svolse attorno al famoso episodio del 1879 dell’insuccesso di Camille Saint-Saëns nell’eseguire Bach sull’organo Bernasconi ad una tastiera e pedaliera di 18 note del Conservatorio di Milano [6]: i limiti tecnici dello strumento evidenziavano la chiusura musicale in un orizzonte nostrano ormai inadeguato non solo al maturarsi di una possibilità esecutiva di autori classici di cui si andava delineando l’importanza storico-culturale, ma ormai in ritardo con lo stesso grande repertorio nazionale e internazionale coevo, poiché cominciava ad arrancare rispetto al repertorio melodrammatico, ormai troppo complesso per essere rielaborato pedissequamente.
Dunque, fu un concorso di istanze che portarono ad un rinnovamento linguistico dei giovani compositori per organo: una sollecitazione vieppiù normativa proveniente dalle gerarchie clericali di sequele mitico-arcaicizzanti (gregoriano, Palestrina), una internazionalizzazione della tipologia organaria, mostratasi nei modelli romani del Merklin (Trinità dei Monti, 1864, San Luigi dei Francesi, 1880), Cavaillé Coll (Collegio Americano, 1868) [7], una sempre più ampia conoscenza e valutazione della produzione strumentale europea [8] e, come corollario, una nuova concezione dell’autonomia compositiva all’organo.
Ma, una volta che furono chiari gli ambiti di riferimento e il solco maestro da seguire, il problema degli organisti-compositori fu quello di trovare la mediazione giusta fra modelli apparentemente distanti; la musica strumentale italiana andava proprio allora indicando nuove strade, e anch’essa usciva da una storia simile a quella organistica, che è il caso di ripercorrere, seppure sommariamente.
Studiando la produzione minore ottocentesca, collateralmente alla massiccia presenza del melodramma nella penisola, si incontra un sottobosco piuttosto consistente di produzione strumentale solistica e da camera che non ha mai perso continuità e che si è svolto secondo le direttive di uno sviluppo classicistico [9] prima e di un’adesione a forme convenzionali intrise di accenti teatrali [10] poi; un quadro estraneo alle più vivaci innovazioni romantiche europee, legato com’era ad un accademismo ompassato, all’esercizio scolastico -sovente di altissima qualità- inteso come palestra preparatoria all’opera, alla proposta di forme di mero intrattenimento e, nei casi solistici, al virtuosismo eroico-romantico applicato
all’opera [11]. Pure una piccola schiera di virtuosi percorse le strade italiane ed europee importando accenti nuovi [12], portando alla luce l’esigenza di più ampi orizzonti, fino a quando, con l’Unità d’Italia, apparvero le prime società quartettistiche e i primi concerti sinfonici [13].
Il solista fu fino ad allora il virtuoso che sommava in sé l’aspetto egocentrico ed individualista col sentimentalismo tipico del romanticismo; l’arditezza tecnica andava di pari passo con il melodismo sfogato, mentre il contenuto consisteva principalmente nell’ampio repertorio di arie d’opera da porgere eloquentemente e da travisare secondo stilemi propri. L’evoluzione dell’eredità pianistica di Clementi, passata in Italia per mezzo di Bonifazio Asioli e Francesco Pollini, trasmessa quindi per tramite di Antonio Angeleri fino ai lombardi-emiliani Adolfo Fumagalli, Carlo Andreoli, Francesco Sangalli e Giovanni Rinaldi, come pure su un altro versante, sempre iniziando da Clementi, passando per Francesco Lanza fino a configurare una vera e propria scuola pianistica napoletana con Giuseppe Martucci come punta di diamante [14], e con gli allievi diretti di Sigismund Thalberg, ossia Beniamino Cesi e di Liszt, Giovanni Sgambati, ci mostra un progressivo ampliarsi di orizzonti e di ricognizioni internazionali: ciò che sul piano squisitamente musicale voleva dire acquisizioni formali e armoniche inedite, gestualità ampia, accenti lirici più maturi, incontro con il simbolico della musica descrittiva e a programma, ma anche, su un piano più ampio, formalismo sinfonico, adozione di atteggiamenti più articolati [15] e, nella sua accezione fondamentale, rinuncia agli idiomi dell’opera teatrale.
Questa impostazione si arricchì di un aspetto del tutto nuovo, quello del musicista-interprete di musiche altrui; poco dopo la metà del secolo i musicisti italiani iniziarono ad assimilare la lezione dei Beethoven, Schubert, Mendelssohn, Schumann, Chopin, Liszt eseguendone pubblicamente, in un’ottica di relativa fedeltà, le opere [16]; fenomeno che deve la sua motivazione all’assimilazione tecnica certamente, ma soprattutto alla individuazioni di modelli compositivi di realizzazione espressivamente valida come, se non maggiormente, le estemporanee “reminescenze d’opera” o “variazioni brillanti” tanto in voga [17].
Dunque, anche la musica pianistica, per isolare l’aspetto riguardante il presente contributo, si pose un problema di affrancamento dal pianismo salottiero ed epidermico [18] che aveva il suo punto di maggior debolezza nell’essere privo di indipendenza formale ed ideativa e nel celebrare un vissuto del tempo immediato fatuo ed estemporaneo.
Apertura europea dunque, ma nel contempo ricerca di una cifra nazionale: l’apparente contraddizione fu in qualche modo il rovello che sotterraneamente coinvolse i nostri musicisti impegnati a tentare strade differenti dall’operismo imperante; sul versante esecutivo si assistette al recupero culturale del Settecento italiano vòlto a indicare un rinsaldarsi ai valori di una tradizione perduta innalzandola a vessillo di una rinascita strumentale, mentre la scrittura musicale compositiva andava modulandosi sui modelli stranieri.
Il dibattito fu assai vivo e consapevolmente sentito, e se uno Stefano Golinelli fece proprie le novità beethoveniane, se il pianismo mendelssohiano [19] e schumanniano si divulgò capillarmente nei vari Fumagalli, Andreoli, Theodor Döhler, se il pieno possesso del grande pianismo maturò compiutamente in Martucci, Sgambati e Busoni, pure il raggiungimento di una qualche identità più autoctona e determinata doveva attendere il secondo decennio del Novecento, quando la polemica sulla “italianità” [20] della musica strumentale, e cioè, in altri termini, l’avvedersi di una necessaria distinzione dalla influenza transalpina, portò a frutti positivi e criticamente condivisibili [21] nella generazione dell’Ottanta.
Il quadro fin qui delineato è il variegatissimo, e neppure completo, sfondo su cui si muovono gli organisti della seconda metà dell’Ottocento, che provenivano tutti dalle scuole di pianoforte [22] orientate sui modelli d’oltralpe. La definizione di nuovi atteggiamenti partendo dal pianismo coevo è di ordine ideale, tecnico, formale, e talvolta ispirativo. Ciò che crea la differenza col passato, negli organisti
che iniziano ad operare negli anni ’70-’80, è la sommatoria di tutti gli aspetti fin’ora messi in luce, mutuati in un clima tanto di un chiarirsi progressivo di intenti quanto di sovraesposizione musicale alle influenze straniere.
Innanzitutto l’organista diventa ora “esecutore” di un repertorio [23]: il confronto fra i programmi di concerto fra pianisti e organisti rivela una palese affinità; in essi vi è:
– esecuzione in piccola misura di brani presi da antichi autori italiani
– esecuzione di musiche di romantici della prima generazione
– esecuzione di musiche di autori contemporanei
– esecuzione di brani di propria composizione.
Il repertorio d’esecuzione non è ampio e piuttosto ribadisce di volta in volta una scelta sintetica [24], ma il pianista-compositore presenta periodicamente nuove composizioni proprie, dialogando con lo stesso repertorio che presenta e con il pubblico che recepisce analogie e differenze [25].
L’organista, come il pianista dell’epoca, esegue a memoria [26], ed è virtuoso per ciò che riguarda gli aspetti della sua tecnica [27]; inoltre vi aggiunge la facoltà di improvvisare [28] secondo lo stesso stile delle sue composizioni, con una perfetta interazione fra studi di riferimento/facoltà combinatorie estemporanee e volontà di stesure compositive.
Il processo di assimilazione si rivela ulteriormente nell’adozione di architetture formali convintamente trasnazionali: dalla compilazione di Sonate in più movimenti [29], all’alternanza di Minuetto-Trio-Minuetto, che potevano diventare Scherzo, Capriccio o Giga, dalle forme bipartite scarlattiane variamente intitolate, al binomio Preludio o Toccata e Fuga, fino allo Studio incentrato su un dettaglio tecnico; e poi ancora le Variazioni, i brani cosiddetti caratteristici come le Leggende, le Fantasie, e i brani “crepuscolari” a mezza tinta, come le Consolazioni, Elegie, Impressioni, Meditazioni di chiara ascendenza lisztiana, o i brani “gotici”, come la Musetta, Canzona, e via dicendo. E’ significativo che si sia sviluppata una letteratura organistica destinata al concerto e dunque pensata per sé stessa, in relazione al virtuosismo dell’esecutore e destinata a tramandarsi come composizione “assoluta”: sono le toccate da concerto, gli studi o gli scherzi portati ad ampiezza sinfonica, i brani descrittivi o caratteristici specificati “di concerto”; tutti titoli, questi, che compaiono in opere dei pianisti coevi, segnatamente in Sgambati e Martucci [30], testimonianza di un rapportarsi alla grande letteratura pianistica, all’esibizione spettacolarmente individualista e, in sostanza, di un innestarsi sul tronco di un vigoroso pensiero solistico gestuale/compositivo.
Per gli organisti, il concerto consisteva normalmente nell’inaugurazione di nuovi strumenti nelle Chiese [31], ma i conservatori o luoghi laici deputati alla musica cominciarono a dotarsi di strumenti da concerto e poco a poco comparvero i grandi strumenti sinfonici tipologicamente europeizzanti [32], esigenti capacità esecutive solistiche rilevanti; il momento della grande esecuzione e della composizione articolata reclamò e ricercò la potenza sonora e le duttili soluzioni coloristiche, portando ai grandi brani da concerto per organo e orchestra di M. E. Bossi, Respighi, Alfredo Casella, Pietro Alessandro Yon [33], come i ben noti precedenti per pianoforte e orchestra di Martucci e Sgambati. Lo spirito con cui si eseguivano le esecuzioni di musiche di autori di epoche più o meno precedenti erano ben diverse dall’attuale: il rispetto dell’originale [34], pure a volte proclamato, era manifestazione di una derivazione, dichiarazione di un’auctoritas a cui si rimandava una provenienza e da cui si riceveva una conferma operativa ideale, senza che questo comportasse un principio di fedeltà esecutiva: il recupero dell’antico sottostava ad una attualizzazione di senso che segnava il confluire dentro la sensibilità attuale di ciò che era considerato compositivamente e strumentalmente valido; la presenza del brano antico indicava la volontà di continuare una tradizione “autentica” in rapporto ad un’altra ritenuta impropria, ma l’interpretazione dell’artista ne mediava la rapportabilità scegliendo l’adattamento soggettivo e non rinunciando in nessun caso alla forza di una poetica espressiva da condividere [35].
Analogamente ai pianisti coevi, l’organista propone, accanto all’esecuzione, un proprio contributo di composizioni rese di pubblico dominio attraverso pubblicazioni; dunque, non solo vi è l’adesione ad archetipi compositivi ma anche un proseguimento degli stessi: il musicista non restituisce unicamente e passivamente i grandi autori, me ne continua la lezione, instradandosi nel solco della costruzione ideale di una storia. Il richiamo agli autori recenti e antichi non è determinato né determina un’indagine filologica: è l’orditura programmatica di un atteggiamento culturale, attraverso cui individuare specifiche direzioni.
Immagine Articolo
Fig. 1: Programma di un concerto di M. E. Bossi tenuto il 13. I. 1890 conservato nell’Archivio
Remondini di Genova; si ringrazia Alessandro Picchi per la gentile trasmissione.
Sintomatico è il percorso del più importante organista di quest’epoca, Marco Enrico Bossi, nutrito negli ambienti europeizzanti bolognese e milanese ai nuovi fermenti: egli evidenzia la duplice formazione pianistica-organistica [36] che si spoglia del retaggio nazional-salottiero per approdare ben presto nei due versanti compositivi ad atteggiamenti più riflessivi [37]. Il suo idioma strumentale, in ciò che riguarda la composizione, si sostanzia indifferentemente di una capacità che ha echi pianistici da un lato e trasposizioni orchestrali dall’altro, disegnando su calchi simil-pianistici la stessa scrittura organistica; si stemperano all’organo le esclamazioni beethoveniane [38], il scintillio della tecnica si mantiene su un solco mendelssohniano prima e brahmsiano poi [39] mentre l’ordito contrappuntistico si evolve dalle pulite trame di Mendelssohn e Schumann [40]; il wagnerismo prima e il debussysmo poi evolveranno in senso più orchestrale il bagaglio tecnico di Bossi, rivelando l’ansia di aggiornamento continuo a un linguaggio europeo in chi percorreva strade concertistiche internazionali. Analogo percorso seguirono Ulisse Matthey [41], Pietro Alessandro Yon e Raffaele Manari; nelle loro esecuzioni e composizioni vi è, come in Bossi, un correlarsi in senso sincronico [42] alle esperienze a cavallo fra XIX e XX secolo, pur con diversi accenti; in tutti questi esponenti resta viva l’impostazione di recupero dell’antico, di pianismo esibito e intrinseco nella tecnica alla tastiera di matrice schumanniana/listziana (toccate, brani a carattere di poema sinfonico), di virtuosismo trascendentale negli studi per manuali e/o per pedale, di riferimento all’armonia e al formalismo tardoromantico coevo e di grande respiro compositivo. Il quadro abbozzato delinea dunque una dimensione culturale indicativa di grandi personalità e di prospettive a largo raggio, attenta a costruire prima e a mantenere poi l’aggancio con il divenire musicale europeo, operando secondo una volontà di fusione linguistica fra istanze cosmopolite ed elementi nazionali [43] prima che la frantumazione linguistica da una parte e il filologismo dall’altro conducessero a tutt’altre configurazioni il mondo organistico italiano del Novecento.
FAUSTO CAPORALI

NOTE
1  Franco BAGGIANI, Alessandro PICCHI, Maurizio TARRINI, La riforma dell’organo italiano,
PaciniEditore, Pisa, 1990, p. 122. D’ora in poi: La riforma.
2  Una lettera di Petrali al periodico Musica Sacra (n. 11 del 1884, in La Riforma p. 127-128) ci permette di gettare uno sguardo vivo sull’insegnamento dell’organo del tempo: esso, a suo dire, ospitava «lo scarto delle scuole di pianoforte, per cui si hanno mani pressoché impossibili ad educarsi a tutte le esigenze del tocco [….]. La digitazione per l’organista è lettera morta; tutto il suo studio consiste nelle poche scale, qualche esercizio della scuola di velocità, poi passa all’organo, siede al centro dello sgabello e muove i piedi [….]. Giunto con qualche esercizioelementare a pestare sulla pedaliera senza sapere che anche con 12 pedali si devono adoperareambo i piedi, passa a fare qualche cadenza col ripieno ed a suonare qualche basso del Fenaroli[celebre trattato su cui si basava l’insegnamento dell’armonia] trascritto per pianoforte, dopoquesto fa la conoscenza colla parte istrumentale adoperando una sinfonia di quelle dell’edizionePeters [sinfonie d’opera in edizioni economiche], indi prepara un pezzo classico per l’accademiafinale[….]. Notasi che in Italia non si usa insegnare il contrappunto e la fuga agli allievi organisti.
[….] Della scuola d’organo nei Conservatori nessuno si interessa; è seconda a tutte le scuole complementari e gli organi generalmente in uso sono fatti sul vecchio stampo». Le sue proposte sono per un’ammissione da giovinetti al corso di organo, per un’accurata preparazione pianistica, per lo studio dell’armonia, del contrappunto e della fuga, del canto fermo e delle tonalità antiche per l’accompagnamento delle salmodie, di un’accurata pedeggiatura e per l’improvvisazione in
qualsiasi genere «onde sviluppare la fantasia e serbare le gloriose tradizioni della scuola italiana».
Questo stato di cose si spiega sia con la mancanza di attenzione all’esecuzione come viene intensa oggi, e, per converso, con l’accento posto all’improvvisazione e all’adattamento di partiture orchestrali su strumenti che erano capaci di traduzioni assai colorite; la secondarietà della letteratura organistica derivava anche dal fatto che l’organo non aveva sviluppato una configurazione musicale originale, proprio per la relazione simbiotica fra i suoi registri, la tipologia tecnica di inserimento registri, gli accessori ecc., con la configurazione musicaleorchestrale del linguaggio melodrammatico. Cf. Luigi Ferdinando TAGLIAVINI, Le risorse dell’organo serassiano e il loro sfruttamento nella prassi organistica dell’epoca, in I Serassi e l’arte organaria fra Sette e Ottocento, Atti del convegno internazionale di studi, Edizioni Carrara, Bergamo, 1995, p. 80-84.
3  Un riassunto in La riforma, p. 132-146.
4  Non era infrequente che l’insegnante di organo fosse un compositore o che l’ammissione al corso di organo fosse riservato agli allievi di armonia e contrappunto.
5  Termini ripresi anche nella Relazione della Commissione di Sovrintendenza del C. Istituto di Musica intorno al riordinamento degli studi redatto da Pier Costantino Remondini, altro alfiere della riforma dell’organo in Italia, nel 1881 per l’Istituto Musicale di Genova; v. La riforma, p. 123 e 126. Nel 1878 lo stesso Remondini aveva lanciato un concorso per “la composizione di vari pezzi scritti espressamente per l’organo, in modo da formare un servizio completo per l’accompagnamento di una Messa o di un Vespro solenne in canto”; cf. Felice RAINOLDI, Sentieri della musica sacra./Dall’Ottocento al Concilio Vaticano II. Documentazione su ideologie e prassi, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma, 1996, p. 206. D’ora in poi: Sentieri 1996.
6  L’episodio come riferito nel 1903 da M. E. Bossi, testimone del fatto, è riportato in Riforma, pp. 39-40. Bibliografia in Sentieri 1996, p. 206.
7  I primi organari italiani ad operare secondo le indicazioni dei riformatori furono Camillo Bianchi alla chiesa del Carmine a Genova nel 1878, Locatelli in S. Maria della Consolazione a Genova nel 1880, Carlo Vegezzi-Bossi alla Esposizione di Torino, 1884, N. Morettini in S. Giovanni in Laterano, 1886-87, Pietro Anelli a Cernusco Lombardone per il conte Lurani, 1887; Pacifico Inzoli a Sant’Ignazio a Roma, 1888; ad essi va affiancato l’inglese Trice (Castelnuovo Veronese, 1884, S. Andrea a Genova, 1888, Soave, 1889, Immacolata a Genova, 1990).
8  Tale esigenza traspare anche dall’esame di talune trascrizioni che andavano pubblicandosi negli anni ’70 nel mare magnum di riduzioni da opere: l’Almasio nella Musica Sacra per organo pubblicata postuma da Vismara trascriveva il primo e l’ultimo tempo del Settimino di Beethoven; la rivista «Musica Sacra» nel 1877 pubblicava la trascrizione del primo tempo della Sinfonia Pastorale; Polibio Fumagalli pubblicava adattamenti da Cherubini, dal Clavicembalo ben temperato di Bach, la Prometheus-Ouverture di Beethoven, Ouvertures di Weber. Cf. Marco AGAGLIATE, Musica organistica e melodramma nell’Ottocento italiano, Università degli Studi di Torino-Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore Giorgio Pestelli, Anno Accademico 1998/99, p.20 e ss.
9  Vedi i violinisti Rolla e Radicati, ad esempio, ancora legati alla lezione haydniana: ampi ritratti, in Sergio MARTINOTTI, Ottocento strumentale italiano, Forni Editore, Bologna, 1972, p. 250 e ss.
D’ora in poi: MARTINOTTI.
10  Quella degli operisti attivi nel campo strumentale: Donizetti, Bellini, Pacini, Mercadante, Verdi, Ponchielli, Catalani, Puccini. Una lucidissma analisi dei 40 anni precedenti il 1886 si trova nell’articolo di Ferruccio BUSONI, Stato della musica in Italia in Lo sguardo lieto/Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di Fedele D’Amico, Il Saggiatore, Milano, 1977, p. 354-363, stagliato sul celebre articolo “De l’état de la musique en Italie”” di Franz Liszt del 1839.
11  Liszt nel 1837 riteneva «divenuti insostenibili gli arrangiamenti, o per meglio dire le deformazioni consuete […] un saccheggio di motivi, bene o mal cuciti insieme»; ad essi fa da pendant, sul versante organistico, questa sua annotazione del 1839: «La musica [nelle feste religiose], naturalmente, non svolge ruolo alcuno in queste solennità, perché secondo me è impossibile dare questo nome all’ortodosso berciare dei cantori accompagnati dal serpentone e tenere in qualche considerazione le ridicole improvvisazioni degli organisti sui temi d’opera ascoltata la sera prima a teatro» (Franz LISZT, “Un progresso continuo” Scritti sulla musica, Ricordi-Unicopli, 1987, p. 132 e p. 289; d’ora in poi: LISZT) A tale aspetto a non furono estranei neppure i pianisti più innovativi, dal Chopin delle le Variations brillants sur Je vends des Scapulaires, alle parafrasi verdiane e wagneriane di Liszt, ad esempio, per quanto su un piano di squisita fattura artistica; ma come scrive ancora lo stesso Liszt, dopo di lui “non sarà permesso di arrangiare le opere dei maestri in modo così meschino come si è fatto finora” (ibidem, p.132).
12  E’ il caso di virtuosi più o meno importanti, a partire da Paganini, quasi un archetipo del modello solistico romantico, e dei vari Bazzini, Sivori, Fumagalli, Döhler, Bottesini, che esportavano successi d’opera e istrionismo personalistico ma importavano poco a poco sensibilità nuove.
13  Resoconti dettagliati in MARTINOTTI, passim.
14  Come pendant della situazione organistica è utile, fra tante, riportare una disamina dell’epoca di
Michela Ruta, nella sua Storia critica della condizioni della Musica in Italia e del Conservatorio di S. Pietro a Majella del 1877: egli elogia la scuola pianistica partenopea, che «negli ultimi anni ha fatto un progresso mirabile, e degno del nostro grande passato. Il pianoforte era in poca cura, e si erano spezzate le nostre tradizioni; la musica classica era bandita dall’insegnamento, e le Fantasie e i Pot-Pourri, ecc. avevano preso il posto della Sonata e del Concerto, ecc. Ora con lodevole sforzo si cerca di riannodare la scuola presente al passato, e continuare la gloria degli Scarlatti […] Quello a cui spetta la gloria del risveglio della scuola di pianoforte è il maestro Cesi discepolo del Thalberg […]. E la musica che fa studiare ai suoi alunni, essendo scelta dal repertorio classico, influirà moltissimo sul progresso delle scuole di composizione». Da sottolineare il riferimento alla “composizione”. Cit. in Folco PERRINO, Giuseppe Martucci Gli anni giovanili 1856-1879, Volume I, Centro Studi Martucciani, Novara, 1992, p. 108. D’ora in poi PERRINO.
15  Anche i semplici titoli di molte opere pianistiche -studi, scherzi, notturni, novellette, preludi e fughe, concerti- o cameristiche -trii, quartetti, ecc.- dicono l’attenzione nuova alla musica pura.
16  Riportiamo alcune tappe salienti della diffusione in Italia di musica d’oltralpe dopo aver ricordato, per stabilire un termine di paragone, la cronaca di Mendelssohn da Milano nella lettera del 14 luglio 1831 che alla domanda se fosse amato Beethoven in Italia ebbe in risposta che «A Milano non v’è alcuno che voglia ascoltare quella musica»; nel 1861 viene fondata a Firenze la prima Società del Quartetto italiana, dal 1864 a Milano , nel 1866 a Torino; memorabili e fonte di accese discussioni furono le esecuzioni wagneriane dirette da Angelo Mariani a Bologna nel 1871-72; Nel 1872 furono istituiti i Concerti Popolari a Torino, con esecuzioni sinfoniche dirette da Carlo Pedrotti. Martucci eseguì per la Società del Quartetto di Napoli nel 1874 brani di Mozart, Beethoven, Schumann, Mendelssohn, Chopin e poi ancora di Bach e Haydn; a partire dal 1881 Martucci diresse per la Società orchestrale della stessa città sinfonie di Mozart, Beethoven, Brahms (la II in prima nazionale) e addirittura nel 1883 il preludio del Parsifal (terminato nel 1882). Tale attività fu perseguita dal Martucci sistematicamente e con piena adesione accanto ai direttori Luigi Mancinelli, Franco Faccio, Carlo Pedrotti. A Roma Sgambati diresse la III di Beethoven nel 1866, fondò la Società del Quartetto nel 1867, diresse musiche di Liszt in quei medesimi anni. Martucci e Sgambati furono, secondo Casella, coloro che ebbero “il coraggio di tentare un ritorno alla musica sinfonica e da camera” (Il Pianoforte, Tumminello & C. Editore,
Roma-Milano, 1932, p. 215). Per inciso sono da segnalare incursioni nel terreno della musica organistica di entrambi, a riprova di un confronto di pari possibilità espressive: Sgambati scrisse una Benedizione nuziale op. 30 nel 1894 assai pianistica e Martucci una Sonata in re minore per organo pieno op. 45 (in realtà op. 36, vedi PERRINO, I, p. 166 e p. 222) nel 1879 . E’ del 1881, come testimonianza di altri milieux culturali, un Praeludium und Doppelfuge zum Choral op. 7 per organo di Ferruccio Busoni, maturato in area austriaca e indice di una sensibilità vigorosamente mitteleuropea.
17  Il virtuosismo pianistico andò progressivamente acquistando dignità: una cronaca contemporanea poteva registrare: «Venute finalmente a fastidio le fantasie, le trascrizioni, le rimembranze, le parafrasi, che snaturano le musiche teatrali, oggi il pubblico cerca nel pianoforte originalità, dottrina e fantasia» (Gerolamo Alessandro BIAGGI, Cronaca musicale in «Nuova Antologia», ottobre 1873, cit. in MARTINOTTI, p. 466). E’ da ricordare che il momento esecutivo avveniva in sede privata borghese/aristocratica o fra un atto e l’altro di rappresentazioni d’opera.
18  Piero RATTALINO fa risalire l’inizio di un’attitudine eminentemente culturale del pianista agli anni ’30 e ’40 con le attività italiane di Moscheles e Liszt che eseguivano musiche di Beethoven, Weber, Scarlatti, oltre alle proprie (Storia del pianoforte, Il Saggiatore, Milano, 1982, p. 252).
19  Fino all’ultimo quarto di secolo, ossia fino all’avvento di Wagner, fu proprio Mendelssohn il modello più diffuso da seguire per il suo classicismo composto sia per i pianisti che per gli organisti (cf. MARTINOTTI p. 28). Il suo controllato melodizzare accompagnato, le successioni accordali a blocchi, le stagliature formali chiaramente disegnate, l’atteggiamento composto e trattenuto, il contrappunto accademico di molta sua musica sacra e organistica, divennero il modello, attraverso la mediazione da autori conservatori quali Guilmant o Dubois ed in seguito piegate talvolta con venature wagneriane talvolta con stilemi modaleggianti, per quella profluvie di musica liturgica di cui consiste molta produzione organistica italiana fino ai nostri giorni.
20  Per ciò che attiene ad un significativo episodio di accusa di “mancanza di italianità” accaduto a M.E. Bossi che aspirava alla direzione del conservatorio di Milano e Pesaro negli anni 1893 1895 e coinvolse Verdi si veda: Federico MOMPELLIO, M. E. Bossi, Hoepli, Milano, 1952, p. 103-104; d’ora in poi: MOMPELLIO.
21  La valutazione critica di tutto questo periodo, eccettuando la figura e l’opera di Respighi, attende ancora una definizione complessiva (cf. MARTINOTTI, p.199 e ss.), ma oggi sembra addirittura necessaria una alfabetizzazione della musica di quel periodo.
22  Petrali fu allievo di Angeleri, Bossi di Sangalli, Yon di Sgambati; Matthey di un pianista torinese inquadrato nell’allora Liceo musicale, Mattioli di Busi ecc. Il Petrali può essere considerato personaggio di cerniera fra preriforma e riforma; diverse sono le testimonianze di un suo stile non smaccatamente operistico all’organo sia documentarie sia compositive come già segnalato da MOMPELLIO, p. 59, che nota a partire dal’80 un proposito di fare opera compositiva «più seria ed accurata» ; è indubbio che l’impostazione di scrittura di gran parte delle sue composizioni è pianistica; una istantanea dei suoi esordi pianistici e organistici, paradigmatica per i musicisti dell’epoca, si trova in Marco RUGGERI “Una maniera di suonare franca, dignitosa e piena di criterio”: Vincenzo Petrali organista del Duomo di Cremona (1849-53)” in ASSOCIAZIONE CULTURALE CORO POLIFONICO CREMONESE, Il Coro Polifonico Cremonese/Quarant’anni per la musica, Cremona, 2008, p. 153-170.
23  E’ nota l’idiosincrasia di Petrali verso l’esecuzione di brani di studio: una testimonianza fra le molte è nella celebre critica di Filippo Filippi che ci offre un vivo ritratto del Petrali (cit. in MOMPELLIO, p. 6 ). Su M. E. Bossi basti citare il Tebaldini che annotava in un suo articolo della Gazzetta Musicale di Milano (XI, n. 50 del 13 XII 1885, p. 22) come questi era stato il «primissimo a dedicarsi non solo seriamente alla carriera organistica […] ma anche a dotare l’organo di composizioni che, mentre facessero tabula rasa di tutta la musicaccia allora in repertorio, si riannodassero ai grandi documenti lasciatici dai Frescobaldi, dai Michelangelo Rossi, dai Pasquini, dai Bach». Un elenco assai istruttivo degli autori eseguiti da M. E. Bossi si trova in Ennio COMINETTI M. E. Bossi, Gioiosa Editrice, 1999, p. 35 e ss.; per Matthey vedasi l’ Elenco brani dei 526 concerti, in Bernardo DA OFFIDA, U. M.², a cura di Giuliano Viabile, Loreto, 1988, p. 112.
24  Cf. Ferruccio BUSONI, Del suonare a memoria (scritto del maggio 1907), in F. BUSONI, Lo sguardo lieto cit., p.208.
25  Il modello di tale impostazione è ancora una volta lisztiano, teorizzato e praticato dal musicista ungherese fin dagli anni ‘30: cf. LISZT p. 54, 286. Un concerto di Martucci a Milano del 18 Marzo 1877 aveva in programma musiche di Scarlatti, Schumann, Chopin, Mendelssohn, Rubinstein, Listz, Weber e Martucci (PERRINO, p.117, ma in generale si veda la ricca documentazione ivi presente). Sgambati eseguiva, oltre ai romantici tedeschi fino a Brahms, musiche di Frescobaldi, Scarlatti, Haydn, e proprie, «quando i pianisti non eseguivano che pezzi dell’Ascher, del Prudent, del Gottschalk, del Thalberg, del Cerimele e del Celega o dei Fumagalli» (Arnaldo BONAVENTURA, Ricordi e ritratti, «Quaderni dell’Accademia Chigiana» XXIV, Tucci-Siena,
1950, p. 20). Nei programmi di concerto dei nostri Bossi, Capocci, Matthey, ecc., figuravano sovente musiche trascritte dai vari Scarlatti, Corelli, Tartini, Padre Martini, quest’ultimo considerato significativamente e miticamente da M.E. Bossi come ultimo rappresentante del “periodo classico della scuola d’organo in Italia”; quindi musiche di Bach, Mendelssohn, Rink, fino ai contemporanei Guilmant, Dubois, Rheinberger, Franck, e, regolarmente, musiche proprie (Sante ZACCARIA, 10 Organisti italiani, AISC-Roma, 1983, p. 4 e ss. per una silloge di programmi di concerto dell’epoca). Benché di periodo assai posteriore, sono da segnalare, relativamente all’ambito organistico, i “20 Concerti storici” tenuti da Raffaele Manari dal 1923 al 1926, modellati sulla serie dei “Concerti storici” di F. Busoni dati a Milano nel 1913, a loro volta ispirati ai “Concerti storici” di Anton Rubinstein eseguiti in varie capitali europee dal 1885; la radice di essi va cercata nel fenomeno ora ricordato, ma in prospettiva il proposito di Manari rappresenta altresì il mutarsi di un tratto di natura ideale –quello del proposito di riallacciarsi ad una tradizione strumentale incorrotta e ripristinata a nuove espressività– in uno storicismo esteso e generalizzato destinato a diventare invasivo della cultura organistica italiana.
26  Per Martucci si veda PERRINO I p. 124; fu Liszt a introdurre in Italia la consuetudine di eseguire
musiche altrui.
27  Tale aspetto è visibile, per evidenziare un dettaglio non secondario, nelle trascrizioni da autori romantici, come per esempio il Moto perpetuo di Paganini, o la Fileuse di Mendelssohn, o lo Studio da concerto in re bemolle di Liszt trascritti da M.E. Bossi; lo studio delle trascrizioni effettuate da Capocci, M.E. Bossi, Matthey e degli altri organisti di questo periodo, rivela puntualmente l’impianto ideale e idiomatico dell’attività esecutivo-compositiva.
28  Liszt parla di sue improvvisazioni su temi dati da “dilettanti” (LISZT, p.179); Busoni inseriva nei suoi concerti improvvisazioni fin dalle sue esibizioni da enfant prodige; per M.E. Bossi improvvisatore si veda: M. E. Bossi nel ricordo di amici e di estimatori, Fascicolo commemorativo dell’Accademia milanese di Musica “M. E. Bossi” a cura di L. Orsini, febbraio 1926, ed. Fiamma Milano, p. 37; M.E. Bossi/Il compositore-L’organista-L’uomo/L’organo in Italia a cura di Giulio Cesare Paribeni, Luigi Orsini, Ettore Bontempelli, Erta, Milano, 1934, p. 268; per Matthey: Padre Bernardo DA OFFIDA, U. Matthey, Libreria Editrice S. Francesco di Assisi, Loreto, 1950, p. 104-105.
29  Il termine era ben conosciuto in precedenza in Italia, ma designava una composizione mono/bitematica in un tempo solo provvista di una specifica destinazione liturgica.
30  Significativamente non vi sono i parallelismi di Valzer, Notturni e simili, ad eccezione dell’Impromptu à la Chopin per organo di M. E. Bossi.
31  MOMPELLIO, p. 6, 7
32  Segnaliamo qualche esempio di organo sinfonico: 1885 – Locatelli III, 68 nel conservatorio di Pesaro; 1892 – Trice IV, 34 e nel 1928 – Balbiani III, 34 a Napoli; 1908 – Carlo Vegezzi-Bossi III, 27 a Bologna; 1908 – Tamburini, III, 58 al Conservatorio di Milano; 1912 – Carlo Vegezzi-Bossi IV, 60 all’Augusteum a Roma; 1922 – Mascioni III, 30 a Padova; 1921 – Tamburini III, 33; 1933 Mascioni V, 112 al Pontificio Istituto di Musica Sacra a Roma. Cf. La riforma, pp. 146-168.
33  A cui vanno aggiunti i brani per organo e archi di Matthey.
34  L’antesignano di questo concetto che sarebbe diventato basilare nel XX secolo fu F. Liszt: si veda a tal proposito LISZT, p. 11.
35  Un esempio di re-interpretazione fra tanti -sulla falsariga di analoghe revisioni effettuate da Sgambati, Martucci (per quest’ultimo si veda PERRINO G. M. L’evoluzione artistica 1880-1886, vol. II, p. 278) e altri pianisti- è costituito dalle rielaborazioni di musiche Sei-Settecentesche per organo pubblicate da M. E. Bossi, in cui l’originale è intessuto da riempimenti armonici e realizzazione romantiche degli abbellimenti; così, ad esempio, con musiche da G. B. Bassani, Pollarolo, fino a Zipoli e Martini, si presenta la Raccolta di composizioni di antichi autori italiani, Rieter-Biedermann, Lipsia, 1908).
36  Quest’ultima non completata regolarmente in Italia dopo significative esperienze inglesi che gli mostrarono l’assoluta inadeguatezza dell’insegnamento dell’organo in Italia sia per i contenuti sia per gli strumenti di riferimento (Cf. MOMPELLIO p. 34, 35).
37  Fra i primi numeri d’opus pianistici risalenti al periodo milanese compaiono una polka e una mazurca, ma già l’op. 9 (Ricordi – 1884) è un Preludio e fuga in sol minore per pianoforte di chiarissime ascendenze mendelssohniane.
38  La Toccata op. 59 presenta spunti dall’op. 106 di Beethoven.
39  Gli Scherzi hanno similitudini di atteggiamenti con Mendelssohn e Brahms (vedi Scherzo in fa di M. E. Bossi con passi Scherzo della Sonata op. n. 2 op. 2 di Brahms), le variazioni rivelano una lettura attenta Schumann (dell’op. 46) e Brahms (da cui deriva l’idea della fuga finale come in Sgambati). Lo Studio sinfonico evolve spunti già presenti in studi di Golinelli, il cui influsso si manifesta anche nei brani crepuscolari e nei moti perpetui delle sue Toccate modellati a loro volta su Weber e Mendelssohn; per la scrittura di tipo corale vi sono echi sensibili dalle 20 Meditazioni religiose di Sangalli. I brani “gotici” come Musette, Siciliana, hanno un corrispettivo nella copiosa produzione coeva di gavotte e pezzi in stile antico di Sgambati, Martucci e altri. L’influsso franckiano è evidente nella Fantasie op. 64 (1890).
40  Piuttosto che dai modelli bachiani, assai più liberi dei romantici; Sgambati, Martucci e altri avevano composto preludi e fughe per pianoforte.
41  Il percorso è del tutto analogo a quello di M. E. Bossi; l’impostazione pianistica, precedente quella organistica anche se non conclusa istituzionalmente, si mantenne sempre viva nella pratica concertistica; la stessa scrittura organistica mostra sovente un ricorso ampio alla tecnica pianistica; cf. OFFIDA, p. 25, 36, 79-85.
42  Nei concerti pianistici Matthey aveva in repertorio musiche di Debussy, Ravel, Scrjabin, Rachmaninoff; ed eseguiva all’organo musiche di Alfano, Schieppati, Galliera. E’ tuttavia da sottolineare come il suo linguaggio compositivo, coloratosi in maniera evidente di accenti brahmsiani (Meditazione in re minore, Andante), franckiani (Elegia in si minore), e regeriani (Tempo di Sonata del 1942-43), sia restato immune dalle crisi che attraversarono il panorama europeo nei primi decenni del X secolo.
43  In Yon, organista in qualche modo “americanizzato”, questo aspetto è particolarmente evidente (Rapsodia italiana, Christmas in Sicily), ma pure è presente nei brani di colore di Manari (Fantasia siciliana) e di Matthey (Alla Madonna di Loreto, Impressioni pastorali).