Rivista Internazionale di Musica sacra 36 I-II 2015 LIM
Un libro di accompagnamenti al canto gregoriano di Çesar Franck e i prodromi della restaurazione gregoriana.
Appunti per lo studio della formazione della musica liturgica come genere.
Il dibattito sulla musica nel culto nella prima metà dell’800 in Francia
Nel corso dell’800 si diffuse in Francia poco a poco l’istruzione pubblica[1]; essa diventò appannaggio dello Stato e tese a porsi come modello uniformatore livellando le particolarità locali orali e folkloriche per rendere disponibile dati culturali sovranazionali. Il termine “popolare” assunse un nuovo significato: se da una parte restava quello di “triviale” o ”volgare”, ora poteva voler dire “appartenente al popolo”, “che si rivolge al popolo”, “che ha una connotazione adatta al popolo”, in relazione alla diffusione di una cultura “media”, ossia di una cultura fatta di dati relativi a un sapere non specialistico e per non addetti ai lavori; ciò avvenne per la musica (come per la lingua, per l’ortografia, ecc.) e per le regole del canto d’insieme, con l’individuazione di persone e di gruppi che vivevano non in modo professionale la musica da una parte, e dall’altra di musiche che costituivano un repertorio appropriato o reso comunque accessibile a tutti per una pratica culturale che identificava uno status sociale mediamente elevato. L’insegnamento musicale iniziò a diffondersi in scuole che proponevano un’istruzione popolare attraverso la fondazione delle Corali, a cominciare dalla città di Parigi; l’iniziatore fu Alexandre Choron[2], il quale creò in questo modo un tipo di aggregazione e di pratica di canto opposto, per natura e intenti, a quello volgare dei cabarets e del tutto diverso da quello professionistico dei teatri. La piccola borghesia si trovò così ad avere la possibilità di una ricreazione elevata che portò anche ad accedere ad una cultura prima destinata a strati sociali superiori. Questo tipo di attività venne ben presto applicata alla musica di chiesa sia nella pratica delle corali, sia nella ricca pubblicistica di musiche religiose e/o liturgiche.
Proprio nella prospettiva di una cultura popolare diffusa legata al messaggio e all’ambiente sacro, il Choron annunciò i temi che, rilanciati con ben altra sostanza teologica e documentaria qualche decennio dopo da dom Guéranger, furono alla base del dibattito sulla musica liturgica in Francia:
“Riassumendo quello che precede, si vede dunque che il Canto della Chiesa di Roma ha in sé tutte le qualità che le assicurano un preminenza incontestabile, origine pura, antichità venerabile, superiorità riconosciuta, universalità quasi assoluta, utilità immensa […] queste sono le principali considerazioni che mi inducono a chiedere che, al momento della riforma generale della liturgia, che deve avere per oggetto quello di stabilire in questo campo l’unità desiderata, questo Canto prezioso sia per sempre reintegrato, secondo la sua primitiva purezza, in tutte le chiese dell’Impero”[3].
Fu la scuola di canto corale del Choron[4] a riscoprire la musica antica, e a creare la moderna figura del cantore, con il proposito dichiarato di rendere popolare la musica del passato e di formare cantori per nuove formazioni musicali e dunque realizzando un accesso alla musica “alta” alla nuova borghesia industriale che confermasse una qualità acquisita del vivere senza essere professionale. Gli anni della soppressione delle Cappelle avevano fatto sparire il repertorio diverso dal canto gregoriano, ossia la polifonia del XVIII secolo, mentre era andato diffondendosi lo stile drammatico che tanto doveva deliziare i fedeli e il clero; con i concerti di musica sacra degli allievi di Choron a partire dal 1827 si comincia a sentire la musica di Palestrina e Allegri, gli oratori di Haendel, i salmi di Benedetto Marcello, le musiche sacre di Jommelli, Haydn, Mozart, Gluck.
Parallelamente all’aspetto di pratica musicale, si andò affermando un tipo di composizione musicale che da un lato non doveva essere eccessivamente complesso, dall’altro doveva consistere di dati culturali non banali: si diffuse quindi una pubblicistica di musiche che attingeva a periodi storici molteplici, mentre si proponevano nuove composizioni scritte secondo modelli sostanzialmente semplici. Si aprirono le porte all’accademismo, ovvero a modi di comporre secondo regole codificate di compositori che si rifacevano a modelli d’antan e che riempirono i cataloghi di Régnier-Canaux, Choudens, Heugel, Durand e Leduc. Il primato del brano scritto secondo regole canoniche fu il lasciapassare per far entrare in chiesa una pratica alla portata di musicisti non necessariamente professionisti che si proponevano di scrivere musica corretta e controllata emotivamente: lo stile imitava Palestrina, o Haendel, o il Mozart devoto, recuperava il fugato, restava in un impianto di musica seria e compassata.
L’ideale di una musica romantica e rivoluzionaria per tutti fu sì teorizzata (da Berlioz, per esempio, o da un Listz[5]), ma in pratica restò appannaggio di una parte della società, quella più istruita, quella che dibatteva e cercava la novità dentro il solco della grande musica.
La musica di chiesa diventò, in virtù delle sue origini dalle Scuole corali, dalle Società di Musica, un’arte “media”, disegnata dalla sua stessa fisionomia come autoesclusa da ogni tentazione avanguardista, lontana da esuberanze emotive, a metà strada fra ricerca e tradizione, intessuta di imitazione di modelli passati accessibili a tutti nella veste linguistica. Mentre in precedenza il compositore operava indifferentemente sui versanti sacro/profano utilizzando gli stessi mezzi, tutt’al più identificando la categoria della meditazione/compassione, si assistette da ora alla creazione di un genere o repertorio che, nelle sue stesse premesse, cercò un adeguamento all’idea di devoto/raccolto/interiore, realizzantesi nell’ imitazione di modelli precostituiti, nella fruizione immediata, nell’accessibilità d’esecuzione, nel bandire il personalismo e il virtuosismo, fino a presentarsi con mezzi essenziali. Un reportage d’epoca ci descrive la situazione delle corali da un punto di vista, per così dire, laico, ivi comprendendo la critica alla consistenza musicale intrinsecamente limitata:
“La France n’a que des notions confuses di développment que les sociétés de chant ont pris en Allemagne et en Belgique depuis quelques années. Tel est le nombre toujour croissant de ces societies […] Depuis trois ans la Belgique c’est engage dans cette voie de propagation de chants d’ensemble, et dans ce court espace, plus de quatre cents societés se sont organisées jusque dans le moindre village […] A part les inconvenient attachés aux meilleures choses, le voeu exprimé par quelque homme de haute portée pour la popularization de la musique se realize de jour en jour. Pour atteindre le but, il est nécessaire que le chant en choeur ne soit pas seulement un délaissement après de rudes travaux, et qu’il ait une destination religieuse. Peut etre est il permis de dire que les compositeurs de ce genre de musique ne se préoccupent pas assez du soin de lui donner cette direction.”[6]
Fu proprio in questo frangente storico che avvenne una separazione tra musica liturgica e musica in generale ovvero tra musica destinata al culto avente caratteristiche definite in virtù di un elemento esterno e musica scritta del tutto a prescindere da riferimenti cultuali, fra musica obbediente a impianti ideologici e musica obbediente al foro interno, tra musica in cui lo spirito si adegua a leggi preordinate e musica che esprime il sé in tutta autonomia; mentre la grande musica, sia laica che religiosa, procedeva nel solco della piena espressione della totalità dell’essere musicale, la musica liturgica riformulava la sua configurazione e la portava nell’ordine del “servizio”, dell’essere strumento direzionato alla sollecitazione di sentimenti comuni identificati sostanzialmente nella “pietas”; il mettersi al di fuori della storia del divenire della musica, teorizzato proprio nei termini di una prospettiva di distacco dal mondo, ha fatto sì che il compositore di musica liturgica potesse avere due identità, una capace di esprimere pienamente il sé senza alcuna restrizione che non gli venisse dalla sua arte, e una che si inserisse all’interno di un codice di atteggiamenti condivisi; l’una e l’altra potevano avere punti di vicinanza e affinità, ma i canali compositivi si sarebbero mossi su versanti che la critica musicale avrebbe faticato a comprendere; il declinarsi della composizione dentro al rito infatti sarebbe stata considerata una sorta di diminutio, una mancanza di autenticità assoluta dell’io, la cui libertà totale era messa in secondo piano; scopo del presente articolo è proprio osservare da vicino, negli aspetti ideologici e tecnico-artistici, come un autore importante come Franck abbia intenzionalmente operato secondo questa duplice visione, riconducendo il suo modus operandi rivolto alla musica liturgica o religiosa a una matrice sussunta anche dal canto gregoriano.[7]
Il definirsi di una musica sacra nei termini teorici dei protagonisti del dibattito sorto in Francia nella prima metà dell’Ottocento doveva tener conto di confini assai stretti: essere popolare perché destinata al popolo dei fedeli, evitare la profanità volgare, evitare i preziosismi degli artisti, rispecchiare un sentimento senza cadere nel sentimentalismo o nella teatralità, favorire la preghiera.
Il movimento liturgico che si era andato formando negli anni 30/40 intese avviare innanzitutto il ritorno alla liturgia romana nelle diocesi francesi con la sua condivisione unitaria e la riforma del canto gregoriano, suscitando un dibattito che si rivolgeva pressoché esclusivamente al clero e a pochi specialisti -essendo l’Ufficio divino visto sostanzialmente come luogo di interiorizzazione emotiva da parte del fedele- auspicando nello stesso tempo il formarsi/ripristinarsi di un’arte cattolica[8].
Ma è significativo osservare come il determinarsi delle idee che avrebbero percorso tutta l’Europa cattolica e tutto il secolo e che avrebbero avuto una codificazione legalitaria con il Motu proprio del 1903, trovino il loro brodo di coltura in quegli scrittori che nel periodo della Restaurazione disegnano l’ambito di riferimento entro cui si incanala la riflessione in senso conservatore. Possiamo citare alcuni passi di Felicité Robert de Lamennais, autore i cui testi esercitarono una vasta eco nel cattolicesimo francese della prima metà del secolo XIX, per vedere la sostanziale correlazione, di prospettive a di terminologia, con quanto poi sarebbe stato declinato sul versante musicale; in essi è possibile vedere la visione nettamente distinta fra il piano umano e il piano divino, quest’ultimo minacciato dalla tendenza dell’uomo ad asservirsi al mondo fisico e a negarsi alla Verità; il vero ordine è rappresentato dalla Religione, luce più viva di quella della ragione, che trova il suo fondamento nella coscienza pura e semplice del credente; quando l’umanità segue ed estende “le sainte empire de la vérité” prepara il suo trionfo; il periodo storico che è succeduto ai romani, ossia quello cristiano, è stato quello che ha rimediato ai mali di un’epoca spaventosa per crimini, stabilendo il giusto senso della storia, mentre riforme e nuove filosofie hanno sollevato le passioni contro l’autorità causando guerre atroci e animosità implacabili; il vero sentimeno religioso è quello che stacca l’uomo dal mondo egli ispira dolcezza e più si risale all’antichità dell’uomo e più si trova l’autentica essenza del credere, lo spirito del Cristianesimo, religione superiore a qualsiasi altra religione e filosofia, è la forza vitale per lo sviluppo dei popoli e ad essi si rivolge perché unisce armonicamente le persone e lo Stato;
“Cela est si vrai, que Rousseau regarde le Christianisme comme peu propre à former des citoyens, a cause qu’il ispire un esprit de douceur, et détache des choses de la terre, c’est à dire, parce qu’il substitue l’amour universel des hommes, a ce farouche patriotisme, si fatal à l’humanité, passion violente et impitoyable qu’il ne fait pas que les concitoyens s’entr’aiment, mais qui fait que l’on hait tout ce qui n’est pas concitoyen.”
“La nature, qui è immuable, parce qu’elle n’est que l’ordre immuablement voulu de Dieu, impose à l’homme des lois immuable comme elle; lois nécessaires, parce qu’elles sont l’expression des rapports nécessaires; lois hors desquelles on ne trouve ni paix ni felicité, parce hors d’elles il n’y a que désordre.
Oui, je le soutiens, l’humble fidèle, priant, dans la simplicité de son coeur, au pied d’un autel solitaire, éprouve une sentiment mille fois plus délicieux, que les plus vives jouissances des passions.
Des nouveaux principles s’etablissent ave une nouvelle Religion, qui sauve la société en manifestant les vrais rapports de l’homme avec son auteur, et des homes entr’eux. Le mots tutélaires de droit et des devoirs acquièrent un sens; l’autorité remplace la force, et le règne de Dieu, qui est l’ordre par excellence, succede au règne de l’homme, ou au desordre absolu.
La religion seule, adoucissant les coeurs, ou effrayant les consciences, mettoit quelques bornes aux fureurs at aux devastations de la guerre, et défendoit contre les passions et les doctrines d’orgueil et de haine, une foible tradition de miséricorde.
Ce qui il y avoit de conservateur dans les lois et dans les croyances des anciens, n’étoit pas de leur invention; car plus on remonte dans l’antiquité, plus ces croyances sont pures et fortement établies. Elles appartenoient manifestement à la tradition primitive, heritage commune du genre humaine.
Et maintenat, peoples entendez: De l’abîme des malheurs où vous a précipités votre crédule confiance en une fausse sagesse, mere du désordre et de la mort, écoutez la Religion qui vous crie: Venez à moi. Vous tous qui travaillez vainement à renaître, vous qui soccombez sous le fardeau des institutions humanines et des doctrines du néant […][9]
“[…] contre les prestiges des sens et l’aveugle fougue des passions. Et ceci donc, comme en tout le reste, l’éminente supériorité du Christianisme sur la philosophie est inconstestable.”
Il parallelismo con le idee dei successivi riformatori musicali di separare la musica sacra da quella mondana, di seguire le regole sempre valide che appartengono alla tradizione passata, di interpretare il sentimento di devozione semplice del fedele ipotizzando uno stato primigenio di perfezione, di rivolgersi al popolo per guidarlo e indirizzarlo, sono puntuali.
Dello stesso tenore sono i riferimenti alle altre arti nell’opera più volte stampata del Montalembert, il quale tracciava in termini pressoché identici gli ideali di ritorno alle fonti, di purezza, di salvaguardia di identità, di sollecitazione popolare e di stimolo al clero:
“Peut-être, viendrait-on ainsi à bout d’engager peu à peu tout ce qui est jeune, intelligent et patriotique dans une sorte de croisade contre le honteux, et purifier, par la force de la réprobation publique, notre sol antique de cette soillure trop longuement endurée. Toutefois je ne vous dissimule pas l’intuime convinction où je suis, que cette réaction n’aura jamais rien de general, rien de puissant, rien de populaire, tant que le clergé n’y aura pas associé, tant qui il n’aura pas été persuadé qu’il y a pour lui une devoir et un intérêt à ce que les sanctuaires de la religion conservent ou recouvrent leur caractère primitif et chrétien […] C’est la foi seule qui a pu peupler la France de innombrables richesses de notre architecture nationale; c’est elle seule qui puorra les défendre et les conserver”.
“Et en verité, il est temp que, grâce à ces généreux efforts, les catholiques apprennent à connaître les purs trésors que leur ont légués leurs pères; et que, dans le domain de l’art, comme dans celui de la littérature, des sciences, de l’histoire, ils ne se résignent plus à adopter pour toute instruction les résultats des mensognes systématiques, des lâches concessions et des inconséquences gallicanes du XVIIIe siècle”[10]
Un inquadramento teologico dell’elemento liturgico/musicale si trova in una dissertazione dell’Abbé Jouve[11] preposta al Dictionnaire d’esthétique chrétienne[12]: in essa si definiscono chiaramente le caratteristiche della musica sacra attraverso quattro qualità: la grandiosità, derivante dalla sublimità dei contenuti della rivelazione per cui Dio ci ha fatto conoscere Dio, ciò che si può immaginare per esempio nel canto del Te Deum eseguito da migliaia di voci e accompagnato dalla grande armonia dell’organo e delle campane in una immensa basilica; il mistero, ciò che deriva dal cuore del mistero di Dio fatto uomo e dell’unità e perfezione della Trinità; espressione dell’amore divino, per cui Dio ha rivelato al mondo la sua stessa essenza attraverso idee, immagini e sentimenti, comprendendo l’uomo nella sfera della sua intelligenza e amore; grazia e semplicità, per cui le verità sono state comunicate attraverso un charme inesprimibile che tempera la profondità della Verità, come si vede per esempio nel racconto della nascita del Verbo.
“C’est ainsi que l’incarnation a fourni à la poétique chrétienne ces quatre caractères de grandeur, de mystère, d’amour, de grace, et de naiveté qu’elle possède exclusivement à toute autre […] On chercherait vainement quelque chose d’analogue dans les autres poétiques de l’art. Celui des Chrétiens ne s’explique dsonc que par le principe qui le detèrmine et le dirige dansses quatre grands moyen d’expression, qui sont la sculpture, la peinture, la musique et l’architecture, que la liturgie appelle à son secours. Et ce principe n’est autre que l’incarnation du Vèrbe réparateur de l’homme et de l’univers déchus par le péché […] (dopo aver descritto un’esperienza di raccoglimento in preghiera in una basilica di Reims) Alors le peuple fidèle, agenouillé sur les dalles du temple, semple avoir perdu sous ces voûtes saintes l’empreinte de la souillure et des passions mondanes. Agrandi par tant de mystères…il apparait ce qu’il est véritablement devenu par la médiation du Verbe incarné, une race choisi – une sacerdoce royal- une nation sainte-un peuple d’acquisition […] Nous verrions que l’âme de toutes ces rites symboliques et mystérieux, c’est la rehabilitation de l’homme déchu et celle de ce monde visible et materielle entraîné dans sa chute et dans sa degradation. C’est ainsi que ce monde materiel lui-même se purifie, s’ennoblit, se dégage de jour en jour de la servitude du péché, en prêtand ses éléments divers à l’architecture, à la sculpture, à la peinture et à la musique chrétiennes, et ses elements acquièrent ensuite une nouvelle perfection des rites mystérieux qui s’accomplissent dans le temple saint, à l’érection et à l’embellissement duquel ils ont dej° contribute…Oui, l’homme tombé et revelé de sa chute jusqu’à Dieu descendu jusq’à l’homme, viola la clef non-seulement des dogmes du christianisme, mais encore des ses rites, non-seulement de ses rites, mais encore des arts consacrés à son culte, don’t ils sont les sublimes et éloquents interprètes[13].
Il canto gregoriano, che a poco a poco rivelava la sua antica fisionomia attraverso lo studio attento degli antichi manoscritti, ormai andava proponendosi come mezzo di realizzazione di una concordia fidelium alternativa al mondo nel momento in cui sarebbe stato adottato unitariamente e paradigma ideale estetico di distinzione dal mondo in virtù delle sue origini antiche e del suo essere scevro di accenti eccessivamente impastati di umanità; lo scopo era quello di ripristinare i fasti del canto liturgico nel nome della sua antichità, letteralità e presunta incorruttibilità, attuando nel contempo l’unità liturgica sovratemporale e sovranazionale di un vivere cristiano tutto spirituale e quasi mistico, al riparo delle ventate rivoluzionarie di qualche anno prima. Il ritorno alle fonti medievali voleva dire il ritorno alla purezza esclusiva della società formata dai cristiani in opposizione al mondo. Lo stesso avvenne nel campo dell’architettura con il ritorno al finto gotico: anche l’aspetto architettonico doveva fare piazza pulita di tutto ciò che poteva assomigliare all’arte pagana del rinascimento o del barocco e rirpristinare l’antico; il parallelismo, anche lessicale, è palese:
“Un catholique doit déplorer plus qu’un autre le goūt faux, ridicule, païen, qui c’est introduit depuis la renaissance dans les constructions et les restaurations ecclésiastiques […] voir l’Eglise s’associer avec une pérsévercance si cruelle au triomphe d’un goūt anti-chrétien qui date de l’époque où elle-même a été dépossédée peu à peu de sa popularité et de sa puissance; la voir renier les inimitables inspirations du symbolisme des âges catholiques puor introniser dans ses basiliques les pastiches d’un paganisme réchauffé et batard; la voir enfin chercher à cacher sa noble pauvreté, ses plaies glorieuses sous d’absourdes replâtrages, c’est une spectacle fait pour navrer une âme qui veut le catholicisme dans sa sublime et antique integrité […].”[14]
L’impianto teorico poneva le sue basi sulla tradizione e forniva una lettura della storia canto gregoriano che doveva alimentare le necessità del tempo presente: così si forma una sorta di vulgata di argomenti che ci offre una visione delle istanza contemporanee: Gregorio magno è colui che compone unitariamente l’Antifonario correggendo, aggiungendo, riformando l’insieme di canti in uso nella chiesa latina a loro volta derivati dal canto greco, mantenendo di questo l’impianto modale di fondo: la natura del canto gregoriano non è mutata, come dimostra il confronto fra la scala diatonica dei greci, con quella di Guido d’Arezzo “inviolablement conservée jusqu’à nos jours” [15]; esso rispecchia un’epoca di fede ardente e di misticismo esaltante e costituisce l’anima dei templi sacri[16]; esso si è trasmesso incorrotto quanto alla sostanza, effetto della sollecitudine di Dio per il culto che gli è reso dalla Chiesa; la varietà di canti che si è creata nella storia imprime al canto gregoriano il sigillo dell’individualità e realizza il principio della varietà nell’unità; gli interventi di papi che richiamano alla integrità originale del canto –Giovanni XXII, Pio V, Gregorio XIII che ricorre all’aiuto di Palestrina, Clemente VIII, Urbano VIII, Benedetto XIV, ovvero una teoria di Santi protettori della purezza del canto contro il capriccio l’ignoranza e l’incuria di coloro che alteravano il vero canto-, sono stati fatti per riportare il canto all’antica venerabilità dei primi secoli, eliminare dalle chiese la profanità e l’impurità, e per far scomparire la difformità di un gran numero di libri introdotti in diverse parti; il ritorno al canto antico costituisce il ritorno all’unità liturgica desiderabile per il cattolicesimo; il canto gregoriano in origine era semplice, quasi sillabico, dolce, melodioso e naturale, quello tardivo è sovraccarico di note, modulate, difficile e poco piacevoli: le più antiche presentano il vero spirito del canto gregoriano; esso è governato da regole fisse, invariabili, mantenute costantemente dalla Chiesa. I teorici medievali sono coloro che hanno spiegato le regole dell’armonia, “d’une origine toute chrétienne dans son essence”[17] , regole tanto semplici nel loro enunciato quanto feconde di bei effetti, perfettamente adatte all’espressione dell’anima cristiana; esse identificano l’armonia propria, normale del canto della Chiesa, che poggia sui fondamenti indistruttibili della tonalità ecclesiastica che gli conferisce nobiltà e varietà inesauribile, oltre ai caratteri paradigmatici di grandezza, mistero, amore, unzione della preghiera; vi è completa opposizione fra canto di chiesa e canto d’opera, fra organo e orchestra, mentre viene rivendicata, significativamente, “la superiorité esthétique du style religieux sur le style théâtral”.[18]
Gli addentellati storici uniti a considerazioni di tipo musicale ricorrono negli scritti dei musicologi dell’epoca e vengono a formare una specie di costellazione di pezze giustificative che disegnano uno mondo musicale a sé, sottratto al divenire delle arti senza essere rivolto a novità creative che non siano sottomesse a regole precise: l’ideale è desunto da un passato ipotizzato sui documenti più che conosciuto esattamente, i personaggi storici sono invariabilmente coloro che ristabiliscono una certezza e un ordine, l’autenticità originaria diventa la rigenerazione dal mondo che mette in crisi. I caratteri disegnati dal canto sacro diventano emblematici di un cercare la superiorità sul mondo (grandezza), separatezza e sovrastoricità (mistero, unzione), garanzia di moralità (amore). L’ispirazione creativa contemporanea deve trovare il filo dell’autentica essenza del cattolicesimo a partire dalla tradizione antica:
“L’âme la mieux disposée a la poésie mystique n’en est pas moins complétement satisfaite (davanti a un’opera pittorica di Overbeck), comme devant les chef-d’oeuvre le plus suave des ancien jours, et l’intelligence la plus revêche est forcée de convenir qu’il y a meme de notre temps la possibilità de renouer le fil des traditions saintes et de fonder une école vraiment religieuse, sans remonter le cours des ages et sans cesser d’être de ce siècle.”[19]
Dal punto di vista musicale, si assistette, sintomaticamente, al dibattito attorno alla musica come teatro di passioni; cronologicamente è da registrare che il formarsi delle idee che avrebbero percorso animatamente tutto l’Ottocento, si andò formulando con consapevole chiarezza parallelamente in ambito laico ed ecclesiastico: riportiamo un acuto e profetico intervento dalle colonne della Gazette musicale de Paris a firma di Joseph Mainzer che indica con chiarezza un modello e un percorso per la musica sacra:
“(parlando del luogo dove l’artista deve apprendere la sua arte, ovvero la cappella Sistina) […] je veux en outre qu’a l’avance, il ait préparé son oreille blasée par les dissonances, les melodie passionnées et les moyens à effet de tout genre, à entendre des chants créés à une époque où la musique simple et religieuse n’éveillait que des idées dégagées de tout intèrêt materiel et où elles ne prignaient que l’éternité et l’infini.
[…] Sans vouloir ici ressusciter cet ancien style dans les compositions dramatiques ou religieuses, on peut cependant affirmer avec hardiesse, qu’aujourd’hui encore l’école du contrepoint et des imitations, est une nécessité fundamentale pour toute composition religieuse ou dramatique. Si on ne veut pas voir cette dernière partie de l’art dégénérer en pâles et insignifiantes pauvretés; si l’on ne veut pas qu’un bruite t un tapage vides de sens remplacent bientôt ces moyens à effet que nos ancêtres cherchaient et trouvaient dans la vérité et dans une peinture fidèle des caractères, il faut avant tout que nos jeunes artistes se livrent à l’étude d’une musique grave et profonde.
[…] Où sont ils les hommes du monde musical moderne, qui vont fouiller les bibliothèques et compulser les manuscripts des siècles passes? C’est avec raison que Thibaut dit à ce sujet qu’on peut aisément inscrire sur l’ongle d’un petite doigt le nom de tous les compositeurs qui, depuis 30 années ont demandé communication des oeuvres de Lotti à la bibliothèque de Venise.
[…] ce que notre époque moderne à tant de peine à atteindre avec son élégance factice et ses caprices désordonnées, nos pères savaient le trouver avec certitude, en s’en tenant à un méthode simple et profonde, à la simplicité, à la verité et à une regularité carachtèristique. Unir ces qualités si importantes à tous les progrès que l’art moderne a pu faire sous le rapport de la forme et de l’élégance extérieure, tel est le but qu’on devrait se proposer aujourd’hui, tel est la tâche que notre siècle nous impose, tel est le résultat déjà obtenu dans tous les autres arts, comme dans la science, et qu’il est temps enfin d’exiger des musiciens.”[20]
Significativo, sia detto en passant, il riferimento al contributo del Thibaut, il cui celebre scritto Ueber der Reinheit der Tonkunst aveva a distanza di pochi anni dalla pubblicazione già un’ampia risonanza; da parte sua, disegnando un ideale di musica sacra pura ispirata allo stile a cappella non contaminato da strumenti e dunque moralmente integra e appartenente a una sfera distinta da quella profana, affermava:
“Così le nostre nuove messe e altri brani di chiesa sono state confezionate fino al punto di essere diventate puramente affettive ed emozionali e portano in tutto e per tutto la lingua dell’opera profana, e persino di quella più richiesta, cioè quella volgare, nella quale la massa, come anche persone più elevate, si trova più a suo agio.”[21]
In Francia ad aprire la discussione fu il F. J. Fétis[22], che avanzò l’idea che la rivoluzione di Monteverdi nell’uso delle dissonanza aveva rotto il sistema di tonalità antiche e introdotto lo stile drammatico dell’espressione delle passioni:
“Guidé par son istinct (Monteverdi), osa mettre en rapport la quatrième note de la gamme, la cinqième et la septième; par ce seul fait il créa les dissonances naturelles de l’harmonie, une tonalité nouvelle,, le genre de musique qu’on appelle cromatique, et, conséquemmente, la modulation […] C’est que en effet, l’accent passionné n’existe et ne peut exister que dans la note sensible […] Le drame musical prende naissance; mais le drame vit d’émotions, et la tonalité du plain-chant, grave, sévère et calme, ne sauriat lui fournir d’accent passionnés, et l’harmonie de cette tonalité ne renferme pas les éléments de la transition; alor le besoin inspire le genie, et tout ce qui peut donner la vie à la musique du drame est crée d’un seul coup […] Attaqué avec violence par quelque zélés défenseurs de l’ancienne doctrine, particulièrment par Artusi, il ne comprit pas plus que ses adversaires qu’il venait de anéantir l’existence des tons du chant ecclesiastique dans la musique mondaine”.[23]
Poiché la musica sacra non può essere simile alla musica profana e non deve ospitare sentimenti volgari, questa deve essere completamente e sostanzialmente differente;
“La vera musica di chiesa non è assolutamente né variata né appassionata perché il suo oggetto è semplice e ultraterreno. Essa ospita un profondo, calmo, in sé coltivato, puro sentimento, e una ferma forza superiore dell’anima, che può sopportare il sublime, e mediante il fervore non viene trascinata verso le passioni umane”[24].
Il modello è l’amore divino, che ispira un sentimento controllato:
“Tel est l’amour qui a inspiré la composition des chants, des tableaux, des stautes de l’art catholique, non, toutefois, avec l’exaltation et l’impétuosité qui se révèlent dans les cantiques de quelques saints personnages, mais avec cette expression douce, céleste, quoique très-animée et toujours pénétrante, qui est le cachet ordinaire de l’amour divin.”[25]
d’Ortigue[26] formula una divisione netta fra generi musicali: egli individua una musica religiosa, una musica drammatica e una musica strumentale; la prima ha come contenuto l’espressione dei rapporti dell’uomo con Dio e segue i diversi aspetti secondo i quali l’idea di Dio si offre all’uomo; la seconda esprime i rapporti dell’uomo verso l’uomo, rapporti che si diversificano secondo le differenti individualità e sensibilità di sentimenti e passioni; la terza si avvale dei rapporti dell’uomo con il mondo fisico, intendendo questo come insieme di dati fisico-acustici e può essere di supporto alle prime due. I tre generi hanno diversi ordini di ispirazione, caratteri particolari e modelli radicalmente differenti.
“En effet, cette expression calme, grave, impassible au point de vue humaine; cette image de continuité, de permanence, d’immutabilité, d’infini, propre à cette sorte de chant qui a directement Dieu pour object, tient au principe constitutif du système ecclésistique, système privée de la faculté de moduler, de l’élément de la transition, et dont l’harmonie, dans le cas où ce système la comporte, toujours consonante, fait naître, sur chaque accord, le sentiment irrèsistible du repos […] La musique dramatique, au contraire, vit de varieté, de diversité, de mouvement, de changement, de trouble, d’agitation […] Il y a donc une différence radicale entre ce genre de musique et les précédents. Chacun a sa constitution, sa tonalité et son mécanisme propres. La distinction de ces deux types de musique est une conquête de notre époque. Cette distinction sera féconde pour l’avenir de l’art. Le style sacré ne pourrait, sans défaillir ni se corrompre, admettre des éléments inférieurs à son type essentiel”[27].
d’Ortigue arrivò a sostenere che fra il sistema moderno e quello antico del canto gregoriano vi era completa opposizione;
“Oui, si le plain-chant doit-être accompagné, soit avec les voix, soit avec l’orgue, comme on le fait de nos jours sourtout, il est infinement préferable de ne plus l’accompagner du tout. Si l’harmonie don’t on s’obstine à l’affubler, doit être vêtement de granit qui l’écrase, ou un abit d’arlequin qui le rende ridicule, -oui, encore, banisson du sanctuaire tout ce qui n’est point mélodie grégoriennepure et monodique […] Mais fort hereusement, et en dépit des oraisons funèbres que l’on pronounce déjà sur la tombe du plain-chant, il ne faut désaspérer ni de l’avenir de l’art grégorien ni du triomphe des varies traditions harmoniques qui conviennent à la nature de de cet art austere parce qu’il est religieux [….] Ce qui appartient au sensualisme restera apanage de l’art prophane et théatral; se qui convient à la douce et sainte prière de l’âme restera le privilege de la musique religieuse”[28]
Addirittura sostenne che il canto gregoriano è lo spirito sociale del cattolicesimo e che il sistema musicale ad esso connesso non ha conosciuto la corruzione dell’orecchio; quindi la restaurazione del canto ecclesiastico diventerebbe una purificazione delle orecchie.
“Si può osservare che ciascuna fase dell’armonia ha apportato una nuova alterazione al canto gregoriano primitivo; l’organum prima, il discanto e tutti gli artifici, il canto sul libro, il contrappunto fiorito fino alla fuga e all’invasione completa della musica moderna. Si può dire che il popolo non canta più nelle chiese da quando l’armonia è stata unita violentemente al canto gregoriano. Perché l’orecchio del popolo trova ripugnante tanta complicazione e artificio: l’organizzazione del popolo è tutta melodica. Ora, quando il popolo non canta più, non prega più”[29].
Poiché nelle regioni il popolo aveva ancora un orecchio vicino alle antiche tonalità (secondo gli studi dell’epoca sulla tradizione orale nelle zone di campagna) e l’arte cattolica doveva indirizzarsi al popolo, ne conseguì che d’Ortigue ritenne che il canto gregoriano aveva una vocazione popolare e doveva essere la salvaguardia morale del fedele.
“Ces chants ont, en effet, une caractère religieux si plein d’amabilitè et de grâce, et tout à la fois si noble et si imposant, qu’il commandent toujours le recueillement et le respect; ils portent meme à l’adoration, quand ils sont chantés avec toute la pureté et la décence qu’il exigent”[30]
La correlazione fra armonia e sani costumi è messa in relazione con il bello naturale di origine divina, a differenza del bello creato dall’arbitrio del musicista:
“Il est donc manifeste que l’emploi de dissonances bien entendu produit dans la musique un nouveau genre de beau, toujour fondée sur la nature […] mais un beau néanmoins qui en est en quelque sorte arbitraire, parce que les temperaments qui les adoucissents, les expressions que l’on tire […] sont véritablement l’ouvrage du musicisen, des beautés libres qui sont de son choix”.[31]
“Vous avez trouvé chez vous-meme de quoi former un concert complet […] des génies pour la composition […] des directeurs pour le conduire […] mais sourtout des homes pleins d’honneur et de vertus […] ; sages et prudentes, pour en banner toutes les dissonances morales qui auraient pu déconcerter dans la ville l’harmonie des bonnes moeures; pour en marquer le jour d’assemblée, en sorte que le plaisir et le devoir ne se trouvassent jamais en opposition; enfin pour en régler l’ordre et la décence […] Ainsi, dans une seule institution, ils ont trouvé le moyen de vous donner tous les genres de beau que je avais entrepris d’expliquer: le beau optique […] la le beau moral dans la bienséances qu’on y observe; le beau spirituel dans le choix des pièces qu’on y chante ou qu’on y joue; et le beau harmonique dans la justesse de l’exécution: ce qui forme un toute ensemble si proper à vous rappeler agréablement l’idée du beau éternel et supreme,le seul capable de nous satisfaire pleinement”[32].
La netta distinzione fra musica di chiesa e musica profana deriva dalla necessità di distinguere il linguaggio degli uomini da quello di Dio:
“La corruption du siècle, dit fort bien l’illustre compte de Maistre, s’empare tous les jours des certains mots et les gâte pour se divertir. Si l’Eglise parlait notre langue, il pourrait dépendre d’un bel ésprit effronté de rendre le mot le plus sacré de notre liturgie, ou ridicule, ou indécent. Sous tous les rapports imaginables, la langue religieuse doit être mise hors du domaine de l’homme”.
Egalement, sous tous les rapports imaginabiles, le chant liturgique doit être mise hors du domaine de l’homme, c’est à dire, au-dessus de ses habitudes frivoles, en dehors de l’art prophane qui se modifie sans cesse et que l’on consacre à toutes les passions, à tous les plaisirs. Sans cela, il n’y aurait aucune difference entre les chants du ciel et ceux de la terre, et nos sanctuaries retentiraient des accents mondains et passions qui se font entendre au theatre.”[33]
Da un punto di vista teologico si fa strada il concetto dell’origine divina della musica e delle arti in generali come grazia concessa da Dio, e dunque della loro pratica come adesione costante e universale al dogma della rivelazione, della religione come principio ispiratore e elemento fondamentale delle belle arti e della conseguenza per cui queste non tardano a degenerare nella bassezza morale e ad annientarsi una volta che arrivino a negare la loro origine divina per abbracciare le cose mondane:
“S’il est vrai que la musique en général ait une origine céleste, il n’est pas moin vrai que la musique moderne en particulier a puisé, plus qu’aucun des autres art libéraux, les éléments de sa costitutions au sanctuaire chrétien […] Cette époque si funeste à l’art chrétienne en général ne porta pas la moindre atteinte aux grandes écoles de contr-point ecclésistiques […] et après l’infiltration exotique du paganisme dans notre art national, c’est-à-dire vers 1598, la musique eutr trouvé dans l’emploi de l’accord (fa contra si) et d’autres nouveautés harmoniques de Claude de Monteverde le principe de sa transformation, c’est-à-dire l’élément passionné…C’est fut alors que commença cette distinction qui s’est perpétuée jusqu’a nos jour, entre la tonalité ancienne et la tonalité moderne, ou, ce qui est la meme chose, entre le plain-chant et la musique” […] Ce fut pendant cette période aussi longue et aussi intéressante que peu etudié de l’art musical, qu’eut lieu insensiblement, dans les conditions de cet art, une sort de bifourcation, au moyen de la quelle la musique, retenu, d’un côté, par les prescriptions de l’Eglise dans les limites de l’antique modalité, s’emancipait peu a peu, d’un altre côté, dans les mélodies profane set dans les effets scéniques de l’opéra. Or, les compositeurs dans le style ecclésiastique, restés constamment fidale à l’ancienne tonalité, ne cédèrent q’à la longue à l’influence de l’élément dramatique et passionné, à tel point qu’il faut descendre jusque vers le milieux du XVIII siècle, pour reconnaître l’abandon, de leur part, de toute espèce d’influence contraire[34].
“L’art vraiment religieux ne repousse que le contre-sens, mais le repousse énergiquement, il a horreur de l’envahissement du paiën dans le chrétien, de la matière et de la chair. Il veut la liberté, mais la liberté avec l’ordre: il veut la varieté, mais la varieté dans l’unité, loi éternelle du toute grandeur et de toute beauté […] le génie catholique sait être féconde et varié sans jamais manquer aux conditions de pureté et sainteté, qui le constituent.”[35]
“[…] la religion est tellement le principe générateur et fondamental des beaux-arts, qu’ils ne tardent pas à dégénerer rapidement et s’anéantir , une fois qu’ils ont renié leur origine divine […] ils descendent même plus bas, en se faisant auxiliaries des passions les plus viles, des instincts les plus grossiers.”[36]
L’ambito di riferimento per la musica liturgica è il genere diatonico del canto gregoriano, la cui differenza con il genere cromatico moderno, degenerato e pervertito, è totale:
“Mais la note sensible est chose inconnu dans le Chant Liturgique […] Loin que la tonalité grégorienne admette ce principe, elle l’exclut. Sous ce rapport, notre oreille est blasée et perverti par la musique moderne […] Sous prétexte d’adoucir l’intonation, on enléverait aux melodies liturgiques leur sévérité native pour y substituer quelque chose de mou et d’efféminé, on sacrifierait la tonalité grégorienne à la tonalité moderne, le sacré au profane, le chant religieux aux chant mondaine; ce qui serait, dit M. Ianssen, d’un vandalisme révoltant.”[37]
L’armonia consonante, piena, regolare, quella che si è sentita per la prima volta in falsibordoni sonori e maestosi nelle immense e magnifiche navate ogivali del medioevo è la sola vera armonia religiosa nel senso stretto del termine, la sola perfettamente appropriata sia alle condizioni liturgiche del culto divino, sia alle condizioni architetturali delle chiese:
Nous savons admirer nos grandes compositions dramatiques don’t la mélodie entraînant et l’harmonie, aussi riche que varié, nous ont si souvent ravis, transportés; mais les accent du contr-point ecclésiastique ont, selon moi, quelque chose de plus male, de plus mystérieux, qui vous saisit jusqu’au fond de l’âme et vous pénètre de joie et de respect lorsque l’accompagnement de l’orgue vient mêler sa religieuse harmonie à celle des divins concerts […] Ce chant (liturgique) ancré dans la tonalitè du plain-chant, qui lui sert de base inébranlable.il est à jamais préservè des écart si difficilesà éviter dans le système musicale moderne…Parmi ces écarts est une harmonie trop compliquée, trop chargée des dissonances. Une telle harmonie, excellent pour esprime sur la scène lyrique les mouvements varies et les contrastes des passions humaines, est, par cela même déplacéee à l’église, dont la liturgie est ordinairement calme, severe et majesteuse. […] Une harmonie pleine, consonnante, ou tout ou moins peu chargé des modulations difficiles, convient donc mieux à nos églises qu’un suite rapide d’accords dissonants . […] n’arrivent à nos oreilles que comme un bruit confus, désagréable, et plus digne du nom de charivari que celui de concert sacré.[38]
La consonanza è ciò che esprime compiutamente l’atteggiamento religioso dell’uomo:
“[…] cette transition, cette dissonance, étaient, dans l’ordre moral, l’expression du troube, de l’agitartion du coeur humain, tandis que la consonance était l’expression du calme, du repos, on a compris que la dissonance avait dû être sévèrement banni de tout chant religieux et particulièrement du plain-chant, et qu’elle n’était proper qu’à l’air mondaine.”[39]
La tonalità gregoriana è la sola capace di esprime compiutamente il sacro:
“[…] quoi qu’on fasse, on ne donnera jamais une caractère véritablement religieux à la musique, sans la tonalité austère et sans l’harmonie consonante du plain chant” [40]
Un altro elemento di dibattito fu quello del ritmo: se la musica del mondo è esagitata, occorre allontanare dalla chiesa ogni elemento che spinge in tale direzione, dalla cadenza virtuosistica, alla quadratura ritmica, alla battuta. Si diffuse il concetto di “ritmo libero” ossia di recitazione modulata il cui andamento è quello di un discorso. Anche il ritmo partecipava di una rigenerazione che passava attraverso la distinzione dal mondo circostante nell’aspetto della pratica musicale.
Possiamo esemplificare questo passaggio in una Istruzione pastorale[41] assai dettagliata comparsa nel 1846: essa teneva conto tanto delle prospettive aperte da dom Guéranger che delle riflessioni che andavano maturando nel contesto più strettamente musicale.
Nel sostenere che il canto “deve essere per le parole e non le parole per il canto”, in essa viene affermato che questo principio non è proprio della musica mondana, per la quale le parole sono un accessorio inutile per i suoni; il ritmo può marcare una differenziazione fra ciò che attiene al culto e ciò che è del mondo.
“[…] niente è più scioccante di sentire questa stessa Sequenza (il Veni Sancte Spiritus quando è eseguita a due tempi su una misura leggera, precisamente come certe danze profane o come una marcia accelerata. Il ritmo proprio del canto ecclesiastico consiste nell’accentuazione intelligente di certe sillabe, e la pronuncia scorrevole di certe altre, come in una conversazione, poiché il canto destinato alla preghiera non è che l’espressione ordinaria di un linguaggio a voce marcata.”[42]
L’applicazione pratica, per così dire, viene formulata esplicitamente dal La Fage nel suo Cours complet:
“La longue a donc une valeur arbitraire, et d’ailleurs son employ est peu frequent; la semi-brève n’a qu’un valeur de prononciacion, et elle emprunte sa durée à la note qui précède. La moyenne seule a une durée fixe, quoique susceptible, ainsi que nous venons de le voir, d’être en plusiers cas modifiée, et cette valeur fait la véritable base du plain-chant, à l’égard des ses durées, qui se montrent ainsi en apparence égales entre elles. Nous disons en apparence, car la similitude des moyennes, par rapport à la durée, est bien loin d’avoir quelque chose de l’exactitude mathématique; mais cette égalité satisfait suffisamment l’oreille et peut-être la contenterait-elle moins si elle était plus parfaite. Aussi a-t-on pu, sans s’écarter de la vérité, dire en définissant le plain-chant, qu’il n’était point soumis à une misure rigoureuse, ce qui à une époque plus recoulée était encore plus fondée qu’aujourd’hui. D’un autre côté ses dépréciateurs lui reprochent par-dessus tout cette monotonie qui lui donne presque inévitablement une lourdeur fatigante pour ceux qui ont l’habitude d’entendre de la musique, dont les rapports de durée, sans cesse variés entre eux, font en gran partie le charme. Ce réproche ne seraitque trop fondée, si le plain.chant était partout exécuté comme il l’est en certains lieux, et particulièrement en plusieurs églises de France, où il se chante sans même tenir compte des semi-brèves exigées par la prononciation, et sans aucune prolongation ni repos d’aucun genre. Il n’est rien en effet, de plus insipide, de plus plat, ni de plus barbare q’une exécution semblable, qui a pourtant ses partisans et que l’on a nommée plain-chant battu”.[43]
“Quiconque se destine à chanter à l’église doit donc s’appliquer: 1 à régulariser sa voix, 2 à donner au plain-chant tour sa valeur, en l’exprimant toujour avec netteté, justesse, égalité. Ces trois qualities constituent toute bonne execution.[44]
Il Nizard arriva a teorizzare un’esecuzione a note uguali scorrevoli (égalité temporaire des notes) come quella che in seguito sarà adottata da Solesmes, facendola derivare dalla necessità di una distinzione dal ritmo della musica mondana e paragonandola a una dizione scorrevole e al battito umano:
“Il faut se souvenir constamment, […] que la mesure des notes du chant grégorien n’est pas et ne peut pas être une mesure rigoureuse et inflexible. Sans aucune mesure , le plain-chant deviant quelque chose de désordonné; avec une mesure trop fortement sentie, il cesse d’avoir ce caractère propre qui le distingue de l’art moderne où l’ampleur du rhythme n’existe pas […]
Quand les sillabes sont surchargées de notes, comme dans certains graduels sourtout, il est bon de passer un peu plus légèrment sur ces longues suites de notes et d’appuyer seulement un peu plus sur les notes principales du ton ou mode dans lequel on chante; c’est un moyen de donner au chant plus de vie et de movement. Lorsqu’au contraire chaque syllable n’est guère surmontée que d’une note, et, dans quelques passages rares, de deux ou trios, comme cela arrive dans un grand nombre d’antiennes, le chant doit être plutôt syllabique que mesuré. […] Il faut, en ce cas, chanter de la meme manière que l’on réciterait., et avoir plutot égard à la prononciation de des mots latins.
[…] Pour bien se figurer le rythme du plain-chant, ou, pour mieux dire, le movement principal qui en mesure les notes ordinnaires et communes, il faut se répresenter le tic-tac d’un balancier d’horloge. Ce balancier peut parcourir sa course d’un manière plus ou moin rapìde; mais sìil coïncide avec le battement du pouls d’un home en bonne santé, on aura, dit S. Augustin, une idér assez exacte de la durée de chaque note.[45]
Il ritmo vago che hanno preso alcuni canti in uso presso il popolo, rendono meglio la preghiera del credente:
“D’autres morceaux […] pourraient être rhythmés rigoureusement, mais une longue désuétude a sanctionné, pour ainsi dire, dans l’exécutions de ces pièces, l’abandon de tout rhythme pur: un sentiment vague et indéfinissable d’adoration a remplacé la mesure musicale ou le mètre poétique.
Dom Guéranger, con un linguaggio che ci rivela tutta la sua opposizione a ciò che poteva essere profano, arrivò ad affermare che il ritmo regolare era “opera del diavolo”e toglieva “tutto il carattere religioso alla preghiera liturgica”[46]; era inutile avere buone edizioni se non si correggevano queste cattive abitudini. Anche usando pessime edizioni, egli aveva abituato a cantare con un andamento agevole e naturale, restituendo bellezza artistica e valore alla preghiera. E’ da vedere anche in questo aspetto il desiderio di spiritualizzazione a cui può prestarsi la musica: l’assenza di ritmo è assenza di tempo, quindi passaggio ad una dimensione interiore; l’assenza di accenti come superamento di una scansione terrestre del tempo. Il ritmo era dunque libero e simile a quello di un discorso, e fu una vera rivoluzione: “una dizione perfetta, una voce duttile, ardore e entusiasmo mutarono la preghiera cantata”[47].
Il fatto che i fedeli restino muti e non cantino durante i riti, non impedisce a loro di concorrere “al servizio della chiesa, all’edificazione del prossimo, alla gioia degli Angeli, alla gloria dei Santi, al culto di Dio”[48].
“E’ un grande errore credere che si contribuisce alla bellezza del culto immettendovi canti insoliti e accompagnamenti qualunque di strumenti e voci. Anziché rendere il culto più maestoso e più efficace, si potrà sfigurarlo, snaturarlo e, a rigore di termine, profanarlo. Eccetto il canto ecclesiastico, cioè il canto gregoriano, non si conosce oggi se non la musica mondana, cioè una musica che si è detta favorevole a ciò che viene definito sensualismo […] La musica del mondo agita e vuole agitarsi, perché il mondo cerca il suo piacere nel movimento e nelle sensazioni; la chiesa al contrario vuole melodie che pregano e fanno pregare e non può che volere ciò, perché il culto non ha altro oggetto che la preghiera.” [49]
Il canto gregoriano ha una fisionomia essenzialmente adatta a alla liturgia:
“Si avrà cura di conservare al canto gregoriano la sua religiosa e dolce gravità, in modo che non vi sia presente nulla di dispersivo e di mondano, e che sia l’espressione sempre di adorazione e preghiera.”
Significativa è la distinzione di Félix Clement in un suo Rapporto al ministro della Pubblica Istruzione e dei Culti M. De Falloux del 1848, in cui si distingue:
“Non pochi ecclesiastici, invece sono dell’avviso che la esecuzione di una musica meno estranea alle abitudini correnti possa assorbire i loro scrupoli e ricondurre dei lontani alla frequentazione delle celebrazioni. Ma tale modo di fare -lo rivela l’esperienza stessa- è tutt’altro che rimedio efficace. Più la questione sarà studiata a fondo e più ci si accorgerà che la musica mondana non piace che ai mondani, e che essa diviene motivo di nuovi sarcasmi in bocca a coloro ai quali ci si illude di aprire le porte. Il Cristianesimo ha la sua musica. E il vitello d’oro la sua.”[50]
La musica traduce quindi una questione di “identità cristiana” in un mondo laicizzato; essa è immagine di un ethos cattolico che si avvale di differenze con la musica mondana: semplificazione modale, ritmo privo di accenti, melodia non passibile di passioni, universale, antica e perciò venerabile, ammantata di validità assoluta, santità e purezza. Tutto ciò era rispecchiato nel canto gregoriano, e, in secondo luogo, nella musica di Palestrina; gli strumenti dovevano essere al servizio del culto e ispirarsi al canto stesso[51].
Le altre musiche ammesse dovevano in qualche modo sottomettersi ai modelli supremi e tenersi nell’alveo della pratica popolare e borghese. Così Niedermeyer[52] e d’Ortigue su La Maitrise e sul Journalde Musique religieuse indicano come modelli organistici la musica di Bach, Haendel, Scarlatti, Frescobaldi, musica che doveva fare da contraltare alle brillanti esecuzioni degli organisti parigini[53].
Guéranger e D’Ortigue rappresentarono l’ala più radicale di questo movimento, mentre altri espressero posizioni più moderate: Berlioz stesso, che pure condivideva la severità dell’amico D’Ortigue per le musiche troppo profane e troppo teatrali, non comprendeva come
“[…] non poteva esistere una musica religiosa fuori dalla tonalità ecclesiastica in modo che l’Ave Verum di Mozart, espressione sublime dell’adorazione estatica, che non è affatto nella tonalità ecclesiastica, non dovrebbe essere considerata come vera musica religiosa”.
Come pure non vedeva a quale titolo
“il canto gregoriano possa essere stimato più degno delle lodi a Dio che la musica scoperta di recente dai cristiani stessi con tutte le ricchezze che il canto gregoriano non possiede”[54].
Un gesuita, P. Louis Girod, così si esprimeva nel 1855, offrendoci anche un’analisi piuttosto chiara delle forze in azione e delle idee portanti nel campo intellettuale[55]:
“Numerose opere sono apparse, molte discussioni sono state fatte con la pretesa di caratterizzare e di stabilire una sicura linea di demarcazione fra la musica religiosa e la musica profana […] Le loro teorie (di teorici mossi da un sentimento di zelo)non si assomigliano e differiscono anche su punti essenziali; ma in generale ci hanno colpito due cose: una esagerazione, una esclusione sistematica, e una dottrina che non tiene conto della pratica; come se fosse possibile cambiare radicalmente il canto delle chiese dalle parrocchie rurali a quelle metropolite e assoggettarle a una forma unica […] Si possono ridurre a tre principale i sistemi che si tenta di generalizzare […] il primo, il più severo, riguarda il canto piano o canto gregoriano come il solo canto ecclesiastico, il solo che sia in armonia con la gravità del culto cattolico. La seconda ammette la musica moderna con la sua tonalità, il suo ritmo, la sua misura e la sua espressione, rinchiudendola in limiti stretti. Un genere essenzialmente grave, un movimento lento, una melodia semplice e dolce, un’armonia poco ricercata […] Il terzo, al contrario non è esclusivo. Esso non respinge che ciò che naturalmente è incompatibile con la santità dei nostri misteri. I suoi partigiani credono che la Chiesa non rigetti alcuna forma di bello, alcuna specie di arte, e come ammette nei tempi più generi di architettura […] essa riceve anche le composizioni musicali più varie che non si oppongono né al suo scopo né alla sua liturgia […] Questa maniera di vedere la musica sacra ci sembra essere la più razionale, la più conforme alla pratica della Chiesa e la più capace di produrre frutti.”
“Entriamo nella questione così spinosa della separazione fra musica sacra e musica profana. Sembra a tutta prima che vi sia un abisso fra loro, secondo l’opinione di eminenti uomini, ma soprattutto di musicisti laici come il Fétis, D’Ortigue, Danjou, Fanard, ecc. che domandano una trasformazione totale della musica attuale e che vogliono ricondurla ai tempi della Rinascenza […] si fondano su due principi […] Il primo è che, in ogni branca delle belle arti, vi è un’arte cristiana e un’arte profana differenti l’una dall’altra per forme e aspetti, che la prima, perduta con il Rinascimento è stata trovata oggi dopo molte ricerche grazie all’archeologia applicata..la musica in ritardo per la cattiva volontà dei musicisti e per l’ignoranza e indifferenza del clero […] Tutte le dimostrazioni per provare l’esistenza di un’arte cristiana, di qualunque genere, non hanno portato a una conclusione logica. Questa idea parte da un sentimento cristiano, stimabile in sé stesso, ma un po’ romantico. Essa manca di appoggio e non può avere per base né un principio razionale e incontestabile, né un fatto storico di qualche importanza. Ancora una volta, la Chiesa non ha mai riconosciuto, mai ammesso, un’arte cristiana.”
“Il canto gregoriano è per noi una forma di arte cristiana, ma non è la sola.”
[…] .Noi pensiamo che si è proppo abusato di espressioni come drammatico, sensuale, mondano, che si è prestato alle parole tonalità,orchestra, violino, una portata, un valore enorme, esagerato. Noi non vedamo affatto come in una composizione religiosa ben fatta il violino potrebbe essere meno appropriato che il flauto, come questo strumento, che è l’anima dell’orchestra, potrebbe toglierle il suo colore religioso […] Per questi motivo, l’orchestra ci sembra perfettamente convenire alle grandi solennità.”[56]
La critica rivolta alla nuova produzione musicale è talvolta aspra:
“Non si saprebbe immaginare niente di più piatto, di più banale e di più sciocco di queste migliaia di piccoli mottetti e di piccole messe scritte per piccole cappelle, per piccoli organi […] Non sarebbe meglio tacere che cantare così?”[57].
L’intransigenza dovette combattere su due fronti: quello dei cantori nella liturgia e quello dell’arte dei teatri. La pratica dei cantori fu spesso descritta come un seguito di orrori: scelta di diapason troppo gravi, condotte vocali brutali e primitive, accompagnamento di strumenti dal timbro cavernoso e dall’intonazione incerta, isolamento dei cantori dai fedeli e relativi arbitri.
Così il Lambillotte:
“(occorre) bandire questi cantori rustici e selvaggi che fanno uscire dai loro polmoni suoni rauchi il cui rumore è più facile a spaventare gli assistenti che a eccitare la devozione.”[58]
Si venne così a definire un modello di canto cattolico caratterizzato da gravità, ieraticità, impassibilità intesa come eliminazione di passionalità: tutto ciò è contenuto, reso, realizzato nel canto gregoriano:
“Il canto gregoriano dovrà essere cantato con voce uguale, piena e sostenuta, senza sfumature e senza inflessioni. Questo genere è quello che conviene alle melodie di cui è formato, che sono sempre gravi e maestose, composte interamente di note di uguale valore e che non cessano di offrire nella loro semplicità bellezze di prim’ordine.”[59]
Vi compare la critica al dato musicale e il principio per cui si accusa il cantore solista di monopolizzare il canto a detrimento dell’assemblea dei fedeli; l’esecuzione non artefatta e autocontrollata diventa un abito esteriore ed interiore sia per la religione che per una giusta devozione:
“(a proposito della pratica plain-chant, o chant sur le livre, ovvero contrappunti più o meno improvvisati su un basso gregoriano) […] Á LA RIGEUR, peut porter le nome de plain-chant; c’est la partie la plus basse, la partie fondamentale; mais c’est encore une question de savoir si ce n’est pas du PLAIN-CHANT DÉGÉNERÉ, qui devient cette partie fondamentale […] Mais ce n’est plus le mouvement libre et aisé du plain-chant […] C’est une movement aveugle, sans cessations, sans interruptions, et d’une égalité contraire à l’établissement du chant appelé grégorien: un movement qui ne convient guère qu’à de grosses voix et non à des voix légères et aisées; une mouvement enfin, pour la pratique duquel il faut etre beaucoup plus imperturbable dans la reddition de sons sur chaque corde..”[60]
Assenza di sfumature, voce impersonale, assenza di ritmo: tutto ciò identifica categorie di a-temporalità e a-individualità, conformemente all’ideale di “santità” del dato artistico. La musica viene quindi idealizzata secondo un modello teorico del tutto ipotizzato, più declinato secondo istanze liturgiche che derivato da impossibili conoscenze storiche. Il canto ecclesiastico deve riformarsi e acquistare una presunta antica dolcezza, leggerezza, purezza. Nella musica è raffigurata la costruzione di una società ideale in cui il corpo perde gli aspetti terreni. Ne nasce una deriva estetizzante, per cui il canto gregoriano è in realtà visto secondo una prospettiva etica piuttosto che filologica: ciò è dimostrato in particolare dal proposito contradditorio di cercare una fattibilità popolare e una promozione educativa rivolta ai fedeli negata dalla stessa conformazione musicale del canto gregoriano.
Il pensiero di dom Prosper Guéranger nelle Institutions Liturgiques[61]
All’indomani della Rivoluzione, dopo anni di distruzione e di persecuzione, la Francia doveva ricostruire un nuovo cattolicesimo. Accanto ai profeti del passato come Joseph de Maîstre, che invocavano il ritorno ai valori della Tradizione, ebbe grande influenza dom Proper Guéranger.
Uno dei problemi più spinosi per i sostenitori del ritorno al canto gregoriano era la diversità dei riti seguiti dalle diocesi gallicane; il Concordato del 1801 fra Napoleone e il Vaticano aveva riconosciuto la religione cattolica per la maggioranza dei francesi autorizzandone il culto sotto la giurisdizione dello Stato e per quel che riguarda il rito si limitava a suggerire quello romano, senza tuttavia imporlo; poteva così accadere che, secondo una nuova ripartizione territoriale, parrocchie appartenenti alla stessa diocesi non seguissero lo stesso rito: su 77 diocesi, 14 seguivano il rito romano, le altre riti locali particolari. Il più convinto sostenitore dell’unità liturgica in senso romano fu dom Prosper-Louis-Pascal Guéranger (1805-1877), le cui idee costituirono la cornice di riferimento per coloro che auspicavano il ritorno all’antico canto gregoriano e premessa dell’impianto storico/estetico/musicologico/liturgico che diede avvio alla restaurazione gregoriana a partire dal 1859, quando iniziò, proprio su suo impulso, il lavoro di ricerca di dom Paul Jausions e dom Joseph Pothier.
L’attività di dom Guéranger si manifestò soprattutto nelle Institutions liturgiques, nella rivista l’Année liturgique[62]e nella rinascita dell’abbazia di Solesmes[63].
Nelle Istitutions si afferma il principio alla base del rinnovamento liturgico secondo cui occorreva partire dalla conoscenza e dall’approfondimento del pensiero patristico, momento fondativo di grande fecondità per tutte le generazioni cristiane; i Padri della Chiesa sono stati il prolungamento della Pentecoste; essi soli hanno compreso il senso mistico delle parole delle scritture, al di sotto del loro senso letterale, seguendo l’ispirazione divina che sfugge allo spirito puramente umano. La liturgia romana ha fissato testi e letture in modo estremamente ricco, tali da formare un immenso tesoro di insegnamenti e da permettere l’intelligenza dei misteri cristiani e della pietà della Chiesa minacciata nell’epoca presente. Dom Guéranger avversò “l’eresia liturgica” che si manifestava nell’anarchia di liturgie inventate ex novo da pseudo esperti, in preghiere piene di giansenismo, in vescovi accondiscendenti, nella difformità tra le varie diocesi; il canto non era da meno, del tutto corrotto rispetto all’antica melodia, diverso da un luogo all’altro e cantato in modo insulso. La condanna della pratica del cosiddetto “plain-chant musical” è serrata, sia sul piano dell’esecuzione che della fisionomia musicale, soprattutto nei confronti della produzione neo-gregoriana sorta in Francia dopo il sec. XVII «capolavori di noiosità, di nullità e cattivo gusto»[64].
Mediante progetti culturali vasti di natura liturgica e patristica, egli si proponeva di rinnovare gli studi sulla base delle più pure tradizioni esegetiche. E’ stato rimproverato a dom Guéranger il dogmatismo unilaterale e l’ultramontanismo, frutti di un intransigente rifiuto delle eresie e di desiderio di assoluta aderenza alla dottrina cattolica, ma le sue idee entrarono nella vita più profonda del cattolicesimo del XIX secolo e giovarono grandemente al movimento liturgico.
In estrema sintesi, i punti del pensiero di dom Guéranger, seguendo le sue Institutions liturgiques, sono i seguenti.
I libri liturgici contengono la tradizione del culto divino e la loro forma remota risale agli inizi della Chiesa; nella sostanza vi è un fondo permanente che ha attraversato i secoli, è stato fissato sotto l’ispirazione dei Vescovi e persiste negli attuali libri ufficiali[65]; almeno a partire dal II secolo, dovevano esistere formule che, per mezzo di semplici aggiunte o leggere modifiche che non hanno alterato il senso e la forma, hanno conservato il senso profondo dei divini misteri.
La liturgia è un insieme di formule antiche e inviolabili che fanno parte del ministero proprio e incomunicabile del sacerdote; ciò che è e resta misterioso nelle parole del celebrante può anche non essere compreso letteralmente; la proibizione del concilio di Trento di tradurre la liturgia in volgare deriva dalla stessa sapienza della Chiesa.
Tutte le chiese che seguono la liturgia romana hanno nei testi e nella stessa lingua uno strumento di unità e fraternità. L’uso in alcune zone tedesche di cantare il Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus nella lingua locale è una corruzione pericolosa; il canto in francese dei cosiddetti Cantiques, dal testo poetico insignificante e dalla melodia vicina alle arie d’opera, rischia di venire considerato parte del culto divino se non viene estromesso dal rito.
“Fino a che non ci verrà provato che il canto gregoriano non è parte essenziale della Liturgia e che si può interrompere la funzione liturgica per far cantare delle strofe in francese da cori di donne, noi sosteniamo che, anche su questo punto, le cose hanno preso un corso deplorevole[66].”
Le melodie gregoriane superano, con le loro melodie religiose e pure, le strofe di melodie profane che portano il pensiero ad altri concerti e che attirano folle di amatori che vogliono soddisfare i loro occhi e le loro orecchie. La dignità nel servizio divino è un requisito di cui non si può fare a meno, e questa dignità è riposta nella lingua liturgica e nella severità del canto gregoriano. E’ un pericolo esporre i fedeli alla perdita della lingua latina e a disabituarli ai vigorosi canti della fede dei nostri padri. Queste melodie fanno sentire la voce della chiesa militante e ospitando canti effeminati si manca di rispetto alle volte sacre del tempio.
La chiesa proibisce oggi le traduzioni, mentre si pubblicano esercizi per poter assistere alla messa in modo da mettersi il più possibile nello spirito delle formule che il prete recita e delle cerimonie che egli compie, mentre si spiega dall’alto della cattedra tutto ciò che si dice, nel più grande dettaglio tutto ciò che si dice e si fa all’altare, i fedeli non hanno da rimpiangere di essere privi di formule in lingua francese che d’altra parte possono imparare a memoria e gustare e capire con frutto[67].”
I libri liturgici anteriori a S. Pio V si sono diffusi in tutta la chiesa latina attestando una cura scrupolosa di conformarsi a un originale inviolabile; in seguito molte chiese particolari hanno compilato Breviari e Messali per proprio uso; la sostanza era romana, ma la parte locale divenne fonte di grave deterioramento della liturgia;
“Non si potrebbe farsi un’idea delle cose strane contenute nelle Leggende, Antifone, Responsori o Inni che servivano a questi Offici; Per il Messale le superfetazioni non consistevano solo in certe Sequenze di composizione bizzarra, o in qualche Messa e Orazione votive verso le quali si è più di una volta protestato. Il calendario, che fino al XII secolo era stato quello di Roma, fu caricato in seguito di un gran numero di feste di cui l’Ufficio non aveva posto negli antichi libri gregoriani; …da qui tutti gli inconvenienti, le forme volgari che riempirono i libri liturgici delle Diocesi che non si servivano più del Breviario di Francescani in uso precedentemente. […] Il disordine aumentò considerevolmente con l’invenzione della stampa. […] La liturgia passò nelle mani di individui che si autoincaricarono di redigerli, […] si vide dei semplici dottori e licenziati in teologia o per decreto, porsi arbitri per questa grave operazione[68].”
Una Costituzione di Clemente VIII del 1602 aveva contenuto questo abuso, imponendo l’uso del Messale e del Breviario ufficiale di Pio V. Ciononostante, un gran numero di libri liturgici pubblicati da allora in Francia mostrano che i loro editori hanno spesso perso di vista le severe prescrizioni della Santa Sede. Spesso contengono non tutti gli Uffici e il loro proprio dei Santi spesso ha Uffici non approvati. Nei Messali a volte vi sono dei riti con formule che non appartengono ai testi ufficiali.
A partire dal XVII secolo si è assistito all’estinzione di tutte le tradizioni precedenti;
“Responsori, antifone, inni, versetti, orazioni, capitoli, lezioni, divisioni del salterio, tutto è giudicato secondo il gusto individuale, come opera di spirito; si riconosce valore a formule nuove approvate da un solo vescovo quanto alle antiche preghiere confermate da molti prelati della Chiesa, improntati alla maestosità dei secoli; la liturgia, una volta inviolabile, diviene mobile e soggetta a cambiamenti[69].”
Significativa è la descrizione dei cambiamenti nel culto risalente a qualche decenni prima nella Bretagna:
“Che diremo della Bretagna? Questa bella e cattolica provincia, tutta romana ancora fino al 1770, ha visto cancellarsi per gradi quel colore che annunciava così espressivamente la sua qualità di paese di Obbedienza; ma almeno nel 1790, e per lungo tempo ancora dopo, le diocesi di Nantes, di Rennes, di Vanne e di Saint-Brieuc, avevano conservato l’esteriorità della Liturgia romana. Il clero recitava i suoi uffici seguendo Jacob, Vigier et Mésenguy; ma il popolo era rimasto in possesso dei suoi canti secolari nelle chiese parrocchiali. Poi si è stampato con grandi spese altri libri; le antiche melodie, l’antico calendario sono scomparsi per far posto, qui al calendario parigino, là a quello di Poitier; ma se, in alcune parti più civilizzate della Bretagna, questi cambiamenti sono stati accolti con qualche indifferenza, non è stata la stessa nelle diocesi popolate da questa razza energica e forte che si chiama col nome di bassi Bretoni.. L’opera nuova fin qui non li tenta, e quando essi si saranno arresi , si potrà dire che l’indifferenza religiosa, avrà vinto anche loro: perché non si immagina, senza dubbio,che queste brave persone diventeranno capaci di imparare a memoria i nuovo canti, per la sola ragione che li avranno obbligati a dimenticare quelli antichi. Essi dimenticheranno nello stesso tempo il cammino della Chiesa, dove niente interesserà più. Noi lo diciamo con franchezza, la distruzione della Li- turgia romana in bassa Bretagna, combinata con la proscrizione della lingua fin qui parlata in questa regione , porterà come risultato di fare di questo popolo grossolano il peggiore di tutti. Se voi gli togliete la lingua dei loro padri, se voi li lanciate, così selvaggi come sono, nei nostri costumi corrotti, e se non li tenete più incatenati al loro passato con le pomposità e canti religiosi, voi vedrete, nel giro di trent’anni, quello che avrete guadagnato con le nuove teorie. In attesa, lo spirito cattolico di queste popolazioni semplici si batte contro gli ostacoli che gli vengono imposti. Si incontrano per le strade delle famiglie intere che, dopo aver visto celebrare nella loro parrocchia i funerali di una persona cara, con dei canti a loro sconosciuti fino ad allora, se ne vanno in tre o quattro luoghi a far cantare, in qualche altra parrocchia in cui i libri romani non sono ancora stati messi al macero, una messa da Requiem; essi vogliono ascoltare ancora una volta questi sublimi introiti. offertori, communio, che sono rimasti così profondamente impressi nella loro memoria, come l’espressione allo stesso tempo tenera e triste del loro dolore. Alle feste della Santa Vergine, dopo aver pazientemente ascoltato cantare i salmi su dei toni estranei, quando viene il momento in cui dovrebbe risuonare l’inno dei marinai, l’Ave Maris Stella, meraviglioso cantico senza il quale la Chiesa romana non saprebbe celebrare le solennità della madre di Dio, e invece il cantore intona questi inni nuovi, di cui non una sola sillaba fin qui aveva colpito l’orecchio di questo popolo, vedreste il dispiacere dipinto sui loro volti; ascoltereste gli uomini e anche i bambini fremere di impazienza; e subito, dopo l’ufficio, effondersi in lacrime amare per il fatto che non si vuole più cantare questo bel cantico, che hanno imparato sulle ginocchia delle loro madri; e i cui toccanti accenti marinaio mescola al rumore dei venti e dei flutti[70]”.
– Il principale strumento della Tradizione della Chiesa è racchiusa nelle sue preghiere e chiunque attenta alla Liturgia mette mano alla Tradizione della Chiesa. La liturgia ha valore dogmatico, Dio stesso ha ispirato i libri dell’Antico e Nuovo Testamento, essi sono Parola di Dio: solo la tradizione ci insegna a distinguerli dagli altri libri, solo essa li conserva e solo essa ne determina il senso. Essa conserva anche gli insegnamenti degli Apostoli e le istituzioni della Chiesa; la Tradizione è professata dalla Chiesa ed è garantita da Dio stesso che non permetterebbe errori nel suo trasmettersi. Colui che si permettesse di alterare i testi a proprio piacimento, sarebbe gravemente colpevole verso la Chiesa. La regola inviolabile dei Santi Padri è che
“la legge della preghiera stabilisca la legge della fede (ut legem credendi lex statuatsupplicandi)”[71].
La dottrina professata nella Liturgia può essere considerata, moralmente, come la dottrina della Chiesa Universale ed essendo questa romana, si può concludere che la liturgia romana si confonde con quella della Chiesa Universale.
Nel clero francese vi è un movimento favorevole al ritorno dell’Unità con la Chiesa romana[72]. La Chiesa è infallibile nella Traditio come nei regolamenti generali e nella disciplina e le sue disposizioni non possono contenere errori nella fede o nella morale.
Come Cristo ha fondato la Chiesa per riunire in un solo corpo i figli di Dio dispersi, così ha dato loro una stessa fede, li ha santificati con i sacramenti, ha dato a loro dei vescovi e ha dato a loro il compito di essere “uno”. L’unità si stabilisce con atti esteriori, attraverso la disciplina del culto. Se c’è una sola fede, c’è una sola tradizione e dunque vi è una sola Liturgia che deve essere osservata in tutte le Chiese.
Per ciò che riguarda il canto, dom Guéranger afferma che non si sarà fatto abbastanza per restaurare la liturgia finché esso “non sarà restituito alle sue tradizioni antiche”[73]. Esso è individuato fin da subito come canto che rispecchia in modo particolare l’idea di santità e di convenienza al luogo sacro:
“Essa sola -la liturgia- può rivelare al musicista queste ineffabili melodie gregoriane, che sono sia l’unica cosa che resta di quella musica antica di cui si raccontano tante meraviglie, sia il prodotto della più nobile e sublime ispirazione cattolica; melodie ammirevoli da cui ci si è allontanati solo per cadere nelle barbarie, credendo che fosse possibile sostituire tanto facilmente delle melodie, così come sostituire con delle formule nuove le formule antiche, per gettarsi in un genere tutto profano che forma il contrasto più rivoltante con la santità del luogo, la maestà delle parole e la religione dei misteri; forse è che altre volte si preferisce comporre pazientemente e allo stesso modo eseguire dei brani insignificanti, sprovvisti di un qualche senso, a condizione che l’accordo sia perfetto e che non manchi il senso della misura.” [74]
Sua è ancora l’affermazione capitale per la ricostruzione melodica secondo cui.
“Si è in qualche modo in diritto di credere che si possiede la frase gregoriana nella sua purezza in un brano particolare quando gli esemplari di più chiese distanti si accordano su una stessa lezione”.[75]
Decisa è la condanna dello stato in cui versa il canto ecclesiastico ai suoi tempi: (riferendosi al canto gregoriano trasmesso da Roma alla corte di Carlomagno da Papa Adriano attraverso diverse copie del Sacramentario gregoriano e facendo proprie le parole del biografo di Gregorio Magno, Giovanni Diacono nella VitaGregorii)
“ E’ successo dunque che in pochi anni le fonti così pure delle melodie gregoriane, contenute negli antifonari mandati da Stefano II e Paolo I, s’erano già corrotti. Giovanni Diacono, nella vita di San Gregorio Magno, spiega, con la franchezza di un artista, le ragioni per le quali il canto gregoriano non si era mantenuto, senza alterazioni, nelle nostre chiese. Ecco le sue parole piene di ingenuità, ma che hanno anche un po’ il tono dell’ invettiva. Il lettore di oggi giudicherà, a suo piacere, fino a che punto i nostri cantori di cattedrali, rinforzati dai serpentoni e dagli oficleidi, meritino e non meritino il rimprovero di aver continuato le barbarie che lo storiografo di San Gregorio condanna con tana severità.
Tra le diverse nazioni dell’Europa, i Tedeschi e i Francesi sono stati i primo a imparare e reimparare la dolcezza della modulazione del canto; ma essi non hanno potuto conservarla senza corruzione, sia a causa della superficialità della loro indole naturale, che ha fatto loro mescolare il loro carattere alla purezza delle melodie gregoriane, sia a causa della barbarie che gli è propria. I loro corpi dalla natura alpina, le loro voci che risuonano come scoppi di tuono, non possono riprodurre esattamente l’armonia dei canti che gli vengono insegnati; perché la durezza della loro gola bevitrice e selvatica, nel momento stesso in cui si applica a rendere l’espressione di un canto melodioso, la loro gola, con le sue inflessioni violente e ripetute, lancia con fracasso dei suoni brutali che risuonano confusamente, come le ruote di un carro sopra dei gradini; di modo che, invece di accarezzare l’orecchio degli ascoltatori, essa la sconvolge, esasperandola e stordendola»[76] .
Molte imprecisioni riguardano il canto gregoriano, così come è stato trascritto nei libri moderni; esse devono essere corrette perché necessarie all’integrità della Liturgia e appartengono nel più alto grado all’arte cattolica. L’approvazione di canti fuori dalla Messa e dall’Ufficio, che non possono essere ospitati nei libri liturgici a causa della loro inconsistenza, e non sono neppure universali, devono essere approvati dall’Ordinario. Un Breve di Alessandro VII esige che non si canti nulla che non sia contenuto nel Breviario, mentre altri testi devono essere approvati dalla Congregazione dei Riti. L’Adeste fideles, l’O filii, l’Inviolata, lo Stabat mater prima di entrare nel Breviario hanno avuto l’approvazione dell’Ordinario. Il movimento liturgico in atto può portare al risveglio nei fedeli del senso dell’Ufficio divino; il loro assistere al culto può diventare più intelligente con il compenetrarsi dentro lo spirito della liturgia, in tal modo favorendo il loro unirsi ai canti sacri, indipendentemente dalla traduzione in lingua volgare:
“Antifone e orazioni, tutto in latino, il francese primitivo dei nostri avi comparendo solo in preghiere totalmente distinte dalla Liturgia; allora (al tempo dei Padri della chiesa), i fedeli prendevano un interesse ardente per il canto liturgico, ne accarezzavano le reminescenze, che accompagnavano i loro lavori, le loro gioie e i loro dolori”[77].
Ciò che si vuole introdurre di nuovo in una Chiesa particolare non deve avere altra autorità che quella del Prelato particolare e dunque può essere soggetta ad errore, in disprezzo dell’antichità e dell’universalità. L’unità europea è uno dei grandi risultati del Papato con la caratteristica di usare il latino e come sanzione l’unità liturgica con Roma. L’unità della Chiesa non esiste là dove non vi sia la liturgia romana.
Louis Lambillotte nacque a La Hamaide, frazione di Hainut, vicino a Charleroi, in Belgio, il 27 marzo 1797 da genitori contadini e commercianti. Dotato di qualità musicali e di buona voce, ebbe da canonichesse della collegiata di Nivelles lezioni di canto fin dall’età di sette anni. Un abate italiano, cappellano di un vicino castello, gli diede in seguito i rudimenti di solfeggio, clavicembalo e armonia.
Conosceva già l’armonia ed era già buon esecutore strumentale, quando l’organista di Charleroi, un religioso premonstratense, lo avvio e perfezionò all’arte dell’organo. All’età di quindici anni, nel 1811, alla morte dell’organista, fu nominato titolare di Charleroi. Qui e poi a Dinant sur la Meuse (Belgio), fu organista per dieci anni. Nel 1820 ottenne il posto di maestro di cappella e organista del collegio dei Gesuiti di Saint-Acheul. Durante questo periodo ebbe l’occasione di completare gli studi classici. Nel mese di agosto del 1825 entrò nella Compagnia di Gesù. Fu ordinato sacerdote il 18 aprile 1830 ad Amiens. Dopo Saint-Acheul, passò successivamente nei collegi di Friburgo, Estavayer, Brugelette e Vaugirard (Parigi), nel collegio dell’Immacolata Concezione. Mentre svolgeva l’attività di insegnante, Louis si dedicò alla composizione di brani sia per le cerimonie religiose che per le manifestazioni all’interno dei collegi di nuova fondazione. La qualità di queste composizioni è necessariamente connessa alla limitata capacità dei suoi interpreti e della sua orchestra, essendo interamente reclutati tra le fila degli studenti. Al termine della sua vita Louis si pentì di aver pubblicato queste composizioni senza aver avuto il tempo per rivederle, giudicandole egli stesso non di elevata qualità.
Nel collegio dell’Immacolata Concezione passò gli ultimi anni della sua vita, e qui morì il 27 febbraio 1855. Sulla sua tomba nel cimitero di Vaugirard fu scritto: “Qui cecinit Jesum et Mariam, eripuitque tenebris Gregorium, hunc super insere, Christe, choris”.
Maestro di cappella e compositore, è soprattutto conosciuto per gli studi sul canto gregoriano; prima ancora dei monaci di Solesmes, cercò i manoscritti più antichi negli archivi di tutta l’Europa, per poterli analizzare e confrontare. La scoperta più importante la fece nel 1848 nell’abbazia di San Gallo in Svizzera, dove trovò quello che riteneva essere una copia dell’Antifonario di San Gregorio[79], secondo le rudimentali conoscenze codicologiche del tempo, il più antico e vicino alle origini manoscritto di canto gregoriano. Lambillotte ne fece fare una copia, con autentica del bibliotecario dell’abbazia e pubblicò il fac-simile nel 1851. L’edizione di Lambillotte comprende una nota storica introduttiva, in cui tenta di provare l’antichità del manoscritto, e una sezione in cui spiega il nome, la forma e il valore dei segni neumatici e le lettere significative dei manoscritti antichi, in particolare di San Gallo. Al fondo dell’opera, c’è un allegato di particolare interesse. E’ -come lui stesso scrive-
“ l’applicazione del principio di collazione al graduale Videruntin in differenti notazioni antiche a prova dell’unità conservatasi nei canti liturgici, dalla stessa epoca fino al XVI secolo, secolo fecondo di disgraziate riforme”.
Tale sezione consiste di un raffronto del graduale Viderunt in tante versioni manoscritte: in neumi a campo aperto, in neumi e lettere, in neumi su rigo, in notazione quadrata, per spiegare il suo metodo di restaurazione del canto gregoriano, basato sulla comparazione di manoscritti diversi scelti fra i più antichi e autorevoli[80].
Le idee
L’impegno fattivo del Lambillotte sul versante della restaurazione dell’antico canto ecclesiastico non poteva non collocarsi sulla linea ideale tracciata da dom Gueranger; pur senza avere un carattere dottrinario sistematico e sostanzialmente limitato agli aspetti musicologici, il quadro complessivo riprende punti e tematiche messe in circolazione dall’abate di Solesmes nelle Institutions. I principi sono riassunti in: Clef des melodie grégoriennes dans les antiques systèmes de notation et l’Unité dans les chants liturgiques[81], e nell’ Esthétique, théorie et pratique du chant grégorien[82]:
Il movimento liturgico ha portato diverse diocesi a ritornare ai testi liturgici romani dopo un lungo periodo di arbitrio e confusione, attuando le parole dell’Apostolo secondo cui vi è una sola fede e un solo battesimo che si esprimono in una sola lingua; anche il canto, linguaggio esso stesso, deve seguire questa direzione ed esprimersi secondo le stesse parole e le stesse melodie.
Grandi pontefici, a partire da Gregorio Magno, santi, interventi papali, passando per Giovanni XXII, il Concilio tridentino, Benedetto XIV, hanno insegnato un canto comune a tutta la chiesa creando una forma e una tradizione della chiesa e intervenendo a favore dell’unità della liturgia e nel canto. La Chiesa Cattolica persegue l’unità nel canto delle preghiere e della salmodia. La difformità dei testi può creare scandalo nei fedeli, e quindi l’unità liturgica è necessaria nei riti. Questa unità si manifesta in modo particolare nel canto comunitario:
“Allora si sentirebbe tutto il popolo fedele intonare e cantare le Melodie Ecclesiastiche in un accordo perfetto come al tempo di Roberto e di Carlo Magno. La magnifica Unità della Chiesa getterebbe un nuovo splendore; e le nazioni Cattoliche celebrare le lodi del Signore, non soltanto nell’unità della stessa fede e delle stesse parole, ma anche, secondo l’ammirabile voto di Carlo Magno, nell’unità della stessa modulazione: ut non esset dispar ordo psallendi, quibus erat compar ordo credendi, et (nationes) quae erant unitae unius Sanctae Legis sacra lectione, essent etiam unitae unius modulationis sacra traditione”[83].
La tradizione si è corrotta a partire dal XIV secolo, ma con lo studio degli antichi manoscritti si può ristabilire l’antico canto gregoriano; se sui testi il lavoro è semplice, tuttavia anche per la melodia si può risalire al canto primitivo e dunque ritornare alla purezza originaria, secondo i canoni di un bello religioso che può rinvigorire la fede nei cuori francamente cattolici[84].
Il metodo per arrivare alla ricostruzione melodica è quello di collazionare gli antichi codici: quando un gran numero di versioni concordano fra di loro si può affermare che si è ritrovata l’antica frase gregoriana.[85]
L’accordo fra gli antichi codici dimostra ancora una volta l’assoluta unità liturgica; le indicazioni contenute offrono suggerimenti per la precisa “forma” di esecuzione; queste stesse melodie, divinamente ispirate, si rivelano nello loro integrità, purezza, tanto alla sostanza quanto alla forma[86].
Il sistema musicale moderno è più voluttuoso e sensuale ed ha rovinato il sentimento per le bellezze dell’arte antica; occorre ricomprendere la melodia gregoriana: quando sarà ricompresa di nuovo nella forma primitiva, tutti saranno d’accordo nell’apprezzarne le qualità.
La chiesa non esclude l’arte moderna, ma guarda al gregoriano come suo repertorio proprio, ne raccomanda l’uso; i sovrani pontefici ne hanno stabilito, propagato l’impiego. Uno dei motivi che inducono alla restaurazione del canto è la singolare stima che la Chiesa porta a queste melodie: ciò indica che questo canto è cosa buona e eccellente e la chiesa meritatamente lo preferisce ad altri (Et merito praefertur scriveva Benedetto XIV nel 1749 nella Bolla Annus qui).
Secondo il Lambillotte, la passione dovrebbe rimanere al di fuori della chiesa quando è espressione dell’aspetto incontrollato dell’animo umano, mentre è specchio dell’anelito dell’uomo verso il bene quando si rivolge a Dio. Ecco cosa scriveva il 2 maggio 1850 su Diapason:
“La passione è un sentimento della nostra anima che ci porta verso un oggetto, o ce ne allontana. La passione è buona o meno a seconda della qualità dell’oggetto. La musica religiosa moderna ha come oggetto Dio, la sua santità e il suo amore, e quindi questa passione è buona. In chiesa sono ammesse tutte le forme di musica, a condizione che portino al loro scopo, che è favorire la pietà dei fedeli. L’arte che entra in chiesa non deve essere solo fine a sé stessa, ma concorrere allo scopo che la religione si propone. Quindi sono ammesse le belle composizioni con orchestra dei grandi maestri, eseguite nelle grandi solennità”.
Il canto gregoriano è unito alle sacre parole della liturgia e quindi canta i più augusti misteri, si identifica con le parole sante del sacerdote e dei leviti[87].
Molte melodie gregoriane sono antiche quanto la liturgia stessa, esse provengono dall’ispirazione cristiana, dallo zelo dei primi fedeli che non vollero accettare le melodie profane e fecero proprie quelle ebraiche; S. Gregorio raccolse e sistemò canti già conosciuti, seguendo una missione divina per portare le anime a Dio e suscitare sentimenti di devozione. Le parole cantate oggi nella liturgia romana sono ancora quelle che S. Gregorio ha regolato, eccettuata qualche parola cambiata da Pio V e qualche nuovo ufficio; a partire dal VIII secolo queste parole sono state adottate da tutti i monasteri e da tutte le chiese cristiane eccetto Milano e parti della Spagna.
Il canto gregoriano è grave, non ammette movimenti vivi e impetuosi, ma al contrario calmi e tranquilli; la sua è una gravità dolce, temperata; non è la marcia a passi uguali o la monotonia defatigante ed esagerata dei grossolani cantori attuali, una delle principali cause dell’impopolarità del canto della Chiesa di oggi[88]. Il ritmo, che non deve essere a note uguali, deve restare in un movimento grave e religioso. E’ un canto semplice per tutti i tempi e tutte le età; in esso si ammira la stessa semplicità dell’opera di Dio e delle opere della religione cristiana; esso rigetta gli ornamenti frivoli, unisce la sublimità alla semplicità, in modo che le sante parole possono essere meglio comprese e gustate. Esso rappresenta il tipo divino del bello musicale[89]. Insegnato nelle scuole, nei pensionati, nei piccoli e grandi seminari, darà modo a tutta l’assemblea dei fedeli di apprezzare come il canto gregoriano è la musica più degna della maestà divina[90]. Nel canto semplice le parole vengono intese meglio, mentre al contrario nella musica moderna il testo sacro è spesso neppure preso in considerazione, è una confusione di sillabe, di parole incoerenti, senza che si possa capire qualsiasi senso.
Fra le qualità vi sono la sacralità, la pietà, la dolcezza e la soavità, riconosciute da Gregorio Magno in poi da moltissimi Pontefici; le melodie gregoriane, eseguite a mezza voce, in modo da portare alla preghiera e al raccoglimento, o anche più forte quando il testo lo esige, benché raramente, da tutta la moltitudine dei fedeli alternativamente al coro, produrranno dei frutti ammirabili di salvezza e di santificazione. E’ un santo compito rendere questo canto all’antica soavità dopo che secoli hanno lo hanno sfigurato con la routine, la confusione e l’anarchia che ha segnato la liturgia romana negli ultimi secoli.
Nelle messe cantate si è abbandonata la liturgia romana, non si cantano gli Introiti, Offertori, ecc. stabiliti dalla Chiesa, ma si eseguono arie improvvisate sull’organo o musica di fantasia; in alcuni paesi come Germania e Italia le messe cantate si eseguono metà in latino metà in lingua volgare, creando confusione; ciascuna chiesa addirittura si è creduta in dovere di crearsi propri testi per nuovi canti; da ciò deriva una deplorevole confusione nelle edizioni a stampa dopo l’introduzione di officiature moderne per nuovi santi. Le edizioni moderne danno differenti melodie su differenti modi applicati al medesimo Introito o Graduale, ecc. cosa che non si riscontra prima del XVI secolo; proprio questo fatto può indurre la Santa Sede a fare ciò che ha fatto per i testi liturgici, ossia eliminare tutti i canti surrettizi e ritornare all’Unità del canto liturgico.
Quando i fedeli avranno fra le mani i libri notati nel modo moderno, prenderanno parte attiva nel canto del gregoriano; il ritorno di molte diocesi alla liturgia romana, il desiderio di molti vescovi di vedere ristabilita l’unità nel canto, l’accoglimento favorevole dello stesso pontefice delle ricerche che si stanno attuando, fanno ben sperare per il futuro della musica in chiesa.
I criteri di restaurazione del canto gregoriano secondo Louis Lambillotte
Agli inizi del XIX secolo circolavano in Francia delle edizioni di canto gregoriano derivate dal Graduale Romano monastico del 1658 curato da G. G. Nivers[91]; le melodie erano state semplificate e accorciate in ossequio all’idea secondo cui l’antico era da rivedere secondo una concreta compatibilità con gli usi moderni; da questa edizione destinata ai monasteri, erano state tratte edizione per le diocesi[92]. Il primo a manifestare la convinzione che occorreva risalire alle fonti manoscritte fu dom Guéranger, ma all’inizio della sua restaurazione della vita monastica a Solesmes nel 1833 ricorse provvisoriamente all’edizione di Dijon del 1815[93] e l’avvio della riforma fu tutt’altro che lineare; in una lettera alla rivista l’Univers del 23 novembre 1843[94] affermava che
“Le versioni dei codici del XII secolo lasciano nell’oscurità il vero andamento del canto gregoriano, essendo la notazione precedente a Guido d’Arezzo non ancora decifrata”.
La posizione nei confronti delle edizioni che si andavano pubblicando in quegli anni era critica, ma ciò non gli impedì di adottare i canti pseudo gregoriani del Proprio composti da dom Fonteinne, allora primicerio dell’abbazia, dal 2 giugno del 1856. Addirittura, in un suo contributo dato alla commissione istituita a Mans per preparare una edizione di canto gregoriano fra il 1853 e il 1857, si pronunciò a favore di tagli di ripetizioni contenute nel canto e della riduzione del numero di note sulle sillabe brevi penultime:
“La seul concession qu’il soit possible aux oreilles modernes est quelle de la pénultième, dans le sens que j’ai exprimé en commençant et cette concession n’est pas contraire à la véritable antiquité”[95].
Il Lambillotte, muovendo dalla collazione di codici per uno stesso brano, fu il primo a comprendere il significato dei neumi; è del 1851 l’affermazione che:
“Noi possiamo leggere i neumi […] che possiamo leggere più sicuramente degli stessi antichi perché la certezza di lettura non riposava, presso di loro, che sulla memoria del maestro, mentre il nostro metodo poggia su una certezza che riposa sull’accordo universale dei manoscritti”.
La descrizione dei neumi presentata nell’Antiphonaire de S.Grégoire è pressoché esatta, benché incompleta, come esatto è il metodo di comparazione fra codici antichi nell’esempio “Viderunt omnes”[96].
Lambillotte, dunque, fu colui che per primo approntò, dopo un lungo studio sugli antichi codici di tutta Europa[97], una edizione basata sul principio della ricostruzione della fisionomia più antica del repertorio gregoriano.
In precedenza ad operare sul terreno della ricostruzione erano stati il Fétis nel 1845[98] e il Danjou, che aveva scoperto nel 1847 l’Antifonario della Facoltà di medicina Montpellier H 159, e ne aveva fornito una descrizione nella sua Revue[99]; quindi il Lambillotte, che dopo aver pubblicato in fac-simile il codice 359 di S. Gallo, lavorò alla pubblicazione della sua restaurazione[100].
La ricostruzione melodica del canto gregoriano operata dal Lambillotte ha dei precisi supporti teorici che vale la pena riassumere prima di delinearne gli aspetti musicologici[101].
L’aspetto riguardante il canto, in un momento in cui la liturgia era esclusiva del celebrante, diventava un momento fondamentale di catechizzazione e orante unità.
Nel passato vi erano differenze di notazione fra una regione e l’altra, differenze di classificazioni modale, ma ciò non intaccava la sostanza:
“esse stavano alle melodie come un’ortografia difettosa a una pagina di stampa […] Gli antichi avevano grande cura di conservare l’unità nella melodia”[102]
La concordanza fra i codici più antichi dà la possibilità di ricostruire la versione autentica di un canto che era già corrotto all’epoca di Carlo Magno, che da parte sua già dichiarava “Revertemini ad fontes SanctiGregorii”; le edizioni di canto dopo il Concilio di Trento non hanno più concordanza con gli antichi codici, non rappresentano più l’antico canto e le affermazioni che li dichiara basati sugli antichi manoscritti sono destituite di ogni fondamento: il gregoriano in essi è alterato, mutilato, corrotto.
L’aspetto archeologico deve tradursi però in possibilità pratica: ciò che ostacola maggiormente la possibilità di esecuzione del canto gregoriano è la prolissità dei melismi: in ciò occorre seguire lo “spirito della Chiesa” e le sue sagge decisioni che da tre secoli ha tolto dalle melodie ecclesiastiche queste lunghezze eccessive. Operando secondo un’ottica di “pastoralità” musicale, si resta nello spirito universale della Chiesa. Dunque il gesuita si muove in una direzione che intende arrivare a rendere accessibile il canto proprio là dove questo doveva essere efficace: non nell’esibizione di pochi cantori, ma nel proferire comunitariamente le stesse parole e le stesse melodie; il canto non può che aggiungere quel sentimento emotivo che fa rientrare l’adesione al mistero in un atteggiamento di pietà interiore.
Accanto a un’edizione, per così dire, “pratica” (Graduel pratique), da pubblicare, il Lambillotte predispone anche un’edizione “monumentale” (Graduel monumental), solamente da consultare, in cui il canto gregoriano è restituito all’antica integrità[103].
Le direttive di semplificazione, chiarezza e rispetto delle antiche fonti sono alla base del lavoro di revisione delle antiche melodie: lo scopo è ancora una volta mirato al possibile uso nella liturgia[104].
Il lavoro di taglio deve essere, infatti, diverso dalle edizioni che si sono succedute anche in tempi recenti, poiché in esse il gregoriano è tagliato in modo arbitrario, senza uniformità fra le varie edizioni, spesso in contrasto con l’antica modalità. L’opera del Lambillotte vuole essere rispettosa del canto originario, senza aggiungere nessuna nota arbitraria, e solamente tagliando le note comprese fra la prima e l’ultima di neumi prolissi. Secondo le intenzioni del Lambillotte, in tal modo ciò che resta appartiene comunque alla tradizione, e non è risultato di arbitri melodici, mantiene in proporzioni ragionevoli le frasi, risulta più semplice da intonare e si mantiene dentro i limiti delle regole antiche; resta sempre una convinzione pastorale di fondo per cui tutto è in funzione di una concreta fattibilità entro le coordinate del momento storico, ma nello stesso tempo occorre muoversi sulla scorta delle teorie degli antichi maestri, in continuità con una sapienza che è appartenuta alla tradizione di fede e di conoscenza della Chiesa:
“Queste regole avevano per scopo di rendere l’intonazione facile e naturale”[105]
Ecco un esempio del modus operandi del Lambillotte:
Sempre nell’ottica di rendere accessibile il canto gregoriano all’uso pratico, egli interviene per non riprodurre i difetti di tonalità che vi si incontrano, come il tritono (subductio in trito); secondo le antiche fonti, vi erano degli aggiustamenti per alzare la corda sub finale e avvicinarla di un semitono alla finale: se si vuole che il cantore eviti la cattiva intonazione occorre indicare con esattezza questi intervalli, sia con il diesis che con il bemolle[106].
La presenza del semitono rende possibile l’armonia moderna, per la quale il Lambillotte ammette anche l’uso delle settime di dominante che non conferirebbero al gregoriano drammaticità particolare, ma semplicemente più vitalità. Infatti, egli annota:
“Vi sono arie moderne molto drammatiche che ne fanno benissimo a meno e altre armonizzate alla moderna che non sono per questo più drammatiche. D’altra parte sarebbe un’altra esagerazione togliere alla musica gregoriana ciò che può darle vita e movimento: l’uomo non è una statua che canta”[107].
Per ciò che riguarda gli ornamenti, il Lambillotte, benché sia certo sulla base di antiche testimonianze che nell’antico canto esistevano i trilli, i portamenti di voce, l’appoggiatura, il vibrato e il gruppetto, si propone di mantenere solo due ornamenti: la plica, corrispondente al portamento di voce ascendente e discendente, che nella sua redazione è tradotta in nota romboidale, e il quilisma, che si eseguiva, a suo dire, con trillo e portamento di voce; questi ornamenti conferiscono dolcezza e grazie al canto. Si possono però sopprimere se non si sanno rendere nel modo giusto.
Per il ritmo e la misura, dando per scontato che esistevano nell’esecuzione primitiva sulla scorta di antichi trattatisti come Guido d’Arezzo, Ucbaldo, Bernone e secondo l’opinione di autorevoli studiosi moderni, il Lambillotte critica l’esecuzione a note uguali che si fa nelle chiese secondo il metodo dell’abate Lebeuf, che risulta pesante e insopportabile, risultato di una notazione in cui le note sono scritte uguali:
“C’è da stupirsi della repulsione che provano per le melodie così travisate le persone di gusto e noi musicisti moderni? Né si creda che il ritmo renda l’esecuzione più difficile: al contrario, il canto diventa più bello, più scorrevole, più melodioso, più facile da ricordare, e diventerà più facile”.
La successione di brevi e lunghe era suggerite dalla stessa forma dei neumi (“in ipsa neumarum figura monstratur“), dalle indicazioni delle lettere significative antiche, normalmente in corrispondenza, secondo il Lambillotte, di forme particolari della notazione quadrata[108]. Gli antichi autori fanno respingere l’interpretazione a note uguali, come pure ricostruzioni recenti che risultano arbitrarie e non basate sugli antichi codici, tale da rendere il canto insopportabile. La sua distinzione fra note lunghe o brevi è invece fatta seguendo le lettere “significative” dei manoscritti antichi.
“Il est encore bien constaté que primitivement ces lettres c, m, t, signifiaient des notes brèves, moyennes, et longue [ ..] Mais la difficulté était de savoir où étaient places primitivement ces notes longues et ces notes brèves. C’est encore par la collation des manuscrits anciens que nous sommes parvenu à la connaître.”[109]
Per quanto riguarda la scelta editoriale di notazione, egli preferisce fornire sia la notazione moderna che quella a note quadrate; la prima è quella più diffusa e permette a tutta la gioventù di familiarizzare con il canto sacro, prendervi parte attiva, e presto permetterà a tutto il popolo cristiano di unire la sua voce a quella dei cantori, come nei “bei secoli” della Chiesa; la seconda è solo per poche persone, tenendo conto che molto pochi la sanno leggere e perfino gli organisti la sanno leggere a tentoni o niente del tutto. In tal modo si potrà fare in modo che le persone “comprendano meglio la nostra santa liturgia”.
La grammatica del Lambillotte è molto semplice:
La scala musicale che comprende tutte le melodie è fatta di tre pentacordi:
Le chiavi nella notazione quadrata sono quattro:
I valori impiegati sono tre:
Il seguente passaggio in notazione moderna:
equivale al seguente in notazione quadrata:
La coda aggiunta alla nota quadrata ne diminuisce il valore; essa vale un tempo in unione alla nota seguente; un tempo è scritto in 2/4. La nota breve vale 1/8 ed è seguita dalla semiminima puntata. Si batte il tempo ogni 2/4 (tempo a cappella e tempo in cui si usava battere la musica figurata)
“In questo modo mille persone possono cantare insieme come due o tre”.
Che il canto gregoriano fosse anticamente cantato da tutto il popolo è fermamente creduto sulla base delle affermazioni di dom Guéranger[110]: nel sostenere che il ritmo dà vita e carattere al brano musicale, il Lambillotte ritiene che esso era necessario per ottenere un insieme perfetto,
“[…] come quando queste melodie erano cantate da una assemblea numerosa; […] la misura e il ritmo danno così tanta grazia e dolcezza alle nostre sante melodie e fanno in modo che il popolo le ascolti e le canti con piacere. Perché in quei bei secoli di fede, come rimarca il saggio abate di Solesmes, il popolo non si accontentava di cantare i Kyrie, i Gloria, i Credo, ma anche prendeva parte al canto degli Introiti, dei Graduali, degli Offertori, ecc., ecc..”
I criteri di esecuzione consigliati dal Lambillotte sono:
– battere la misura a un tempo; il ritmo deve essere regolare, ma il sentimento del tempo deve essere subordinato al senso delle parole.
– la nota semplice quadrata vale un tempo
– la nota quadrata doppia vale due tempi, con riposo a volontà
– due note romboidali valgono un tempo
– la nota quadrata e una romboidale valgono un tempo
“Con queste semplici nozioni mille voci possono eseguire il canto perfettamente insieme. Del resto questo metodo non contiene altro che la dottrina dei più antichi maestri”[111].
Si riporta, a titolo di confronto, l’Introito Resurrexi nella ricostruzione e trascrizione fatta dal Lambillotte[112] accanto alla versione moderna del Graduale Triplex.
Lo “status quo” nell’opinione di un organista – Letture significative
Il dibattito sulla musica liturgica entrò nel vivo negli anni 40 del XIX secolo: a disegnare con chiarezza il quadro complessivo furono l’opera di Felix Danjou[113]De l’état et del’avenirdu Chant Ecclésiastique en France e la «Revue de la musique religieuse, classique et populaire» da lui fondata e diretta[114].
Punto di partenza irrinunciabile, sulla scia di dom Guéranger, è la ricostruzione dell’unità liturgica e l’adozione di un canto comune; se la confusione dal punto di vita rubricistico è evidente sintomo di disgregazione, non solo è auspicabile un ritorno all’uniformità dei testi, ma anche a una esecuzione delle antiche melodie secondo la tradizione e lo “spirito e l’intenzione della Chiesa”. Questi obiettivi vanno inquadrati nell’ottica del canto dei fedeli tutti insieme, nella convinzione che l’antico canto gregoriano fosse un canto da affidare all’intera assemblea riunita, e che esso costituisse l’espressione più autentica della lode a Dio e momento di azione salvifica[115]. Netta inoltre doveva essere la distinzione fra la musica profana e la musica sacra: la musica mondana esprime le passioni in tutta la loro seduzione e la musica sacra non può confondersi con essa se vuole suscitare sentimenti di pietà, devozione, solennità. La riforma deve dunque “cacciare” dal tempio la musica profana e nello stesso tempo dotarsi di musica con connotati propri intonati al “sacro”.
Gli ostacoli che si oppongono alla restaurazione del canto ecclesiastico[116]
Gli ostacoli seri che arrestano e paralizzano tutti gli sforzi che si possono mettere in atto per operare la riforma del canto religioso, sono due:
– il primo è la diversità dei canti e delle liturgie usati nelle diverse diocesi, cioè la mancanza assoluta di unità;
– il secondo è la totale indifferenza del Clero e delle Fabbricerie per una tale riforma.
La saggezza dei pastori della Chiesa conosce molto bene gli inconvenienti e i vantaggi, se ce ne sono, delle liturgie moderne. Già un vescovo ha dato l’esempio di ritornare alla liturgia romana. Altri stanno seriamente pensando di adottare lo stesso provvedimento. Il giorno in cui in Francia ci sarà una liturgia unica per tutti, il canto ecclesiastico non sarà più in rovina, e la sua restaurazione sarà vicina. Ma non basta ritornare al canto romano o conservarlo premurosamente dove già c’è: bisognerebbe anche darne un’edizione corretta e uniforme, ricercare la tradizione perduta di una sua buona esecuzione, imporne lo studio approfondito nei seminari invece degli studi superficiali attuali.
Anche tra le diocesi come Bordeaux, Cambrai o Avignone, dove si segue ancora la liturgia romana, i canti differiscono tra di loro sotto molti aspetti. Numerosi errori si sono insinuati nei libri dei canti. Alcuni canti di pessimo gusto, estranei alla liturgia, sono entrati nell’uso comune. Tradizioni viziose e alterazioni grossolane hanno successivamente snaturato l’opera di San Gregorio. Un grande musicista, M. Fétis, sta preparando per il Belgio una edizione corretta dell’antifonario e del graduale romano. Solo quando saranno tolti dalla liturgia questi canti moderni e barocchi, si potrà approfittare con buoni risultati del lavoro di M. Fétis che attualmente è sottoposto all’esame della Congregazione dei Riti di Roma.
Fino a quando i nostri Pastori non giudicheranno opportuno ritornare alla liturgia romana, bisognerà accettare i canti di ogni diocesi per quello che valgono e tentare almeno di eseguirli in modo solenne e conforme al carattere del canto gregoriano, secondo lo spirito e l’intenzione della Chiesa.
Sarebbe tempo di fermarsi sulla strada dei cambiamenti nella liturgia, strada sulla quale ci si è incamminati da due secoli. Ogni giorno ancora, si stampano edizioni nuove di graduali e antifonari, composti da Le Boeuf, La Feillèe, Poisson, e altri autori. Queste edizioni sono lasciate alla cura di ecclesiastici che aggiungono dei nuovi canti e correggono quelli antichi. Si accumula così errore ad errore, si aggiunge al disordine un disordine ancora più grande ancora, non si rispettano neanche i canti popolari, consacrati dalla tradizione. Per esempio, la notazione degli inni Pange Lingua, Veni Creator, Verbum Sacris, delle antifone mariane Salve, Ave, Regina, varia in ogni diocesi; ed è già un bene se i testi sono uguali. I vescovi avrebbero un mezzo per rimediare a questo stato di cose. Dovrebbero prescrivere, per le nuove edizioni, di conformarsi scrupolosamente al canto gregoriano nelle parti del breviario e del messale le cui parole sono simili a quelle dell’ufficio romano. L’adozione di tale provvedimento realizzerebbe un grande miglioramento senza cambiare una sola virgola alla liturgia di ciascuna diocesi. Nelle nuove liturgie i Kyrie, Credo, Sanctus, Agnus, il salterio, un certo numero di inni, di antifone, responsori, sono formati dagli stessi testi dell’ufficio romano. Ora, nulla impedisce di applicare a questi testi il canto gregoriano, scegliendo per stabilire questa conformità, una edizione riconosciuta corretta. Sarebbe un grande passo verso l’unità.
Il secondo ostacolo è l’indifferenza del Clero e dei Consigli di Fabbriceria, che dicono: “perché ci si parla sempre di riforme, di innovazioni; abbiamo dei canti che sono passabili, di cui sono venti anni che ci accontentiamo, non vogliamo nei nostri uffici le distrazioni che porta la musica, etc…”
C’e’ in Francia una chiesa importante, dove si riunisce e dove si forma l’élite del clero, che oppone tali motivazioni ad ogni tentativo di miglioramento del canto. E’ dunque necessario dimostrare che il canto dei nostri uffici è in uno stato deplorevole, di cui la Chiesa, in tutte le altre epoche, ne aveva compreso diversamente la magnificenza; che si può, senza recare danno alla preghiera, senza distruggere il raccoglimento, cantare con un po’ di più di grandiosità e di maestosità.
Per dimostrare quanto il canto ecclesiastico abbia perso del suo antico splendore, proviamo ad assistere ad un ufficio e seguiamo con attenzione l’esecuzione delle diverse parti. La chiesa è piena di fedeli, i quali senza dubbio sono riuniti per unirsi alla voce dei sacerdoti e presentare il quadro che traccia San Giovanni Crisostomo: “ Uomini e donne, giovani e vecchi, uomini liberi o schiavi, noi cantiamo tutti insieme e come con una sola voce”. Ecco come si intendeva il canto degli uffici al tempo di San Giovanni Crisostomo; da allora le cose sono cambiate. Ci sono quattro cantori e un serpentone (e parlo delle chiese meglio organizzate), che, riuniti attorno ad un leggio, gridano, mettendoci del loro meglio, l’Introito. Intanto si vede, in questa grande chiesa, un clero numeroso, un seminario, dei giovani sacerdoti, speranza della religione. Essi vogliono certamente unire le loro voci a quelle dei cantori, coprire le voci grossolane di questi con le loro voci fresche e giovani. Ma non è così: il Clero recita il suo rosario, i giovani sacerdoti leggono qualche pia riflessione; in mezzo ai presenti, gli uni recitano devotamente qualche decina del rosario o rileggono dieci volte le preghiere durante la messa, gli altri sono disattenti; e in questo quadro, la liturgia di San Gregorio, di San Tommaso d’Aquino sparisce completamente.
Dopo l’Introito viene il Kyrie: è un canto popolare che si sente periodicamente; i fedeli, i chierici lo conoscono e certamente vogliono rispondere all’intonazione dell’organo. In effetti, essi cercano di farlo; ma come mettersi all’unisono con queste voci cavernose e sepolcrali, quando si ha una voce chiara, acuta, naturale; si tenta di accordarsi sia all’acuto che al grave, all’ottava sopra , all’ottava inferiore, la voce si rovina in sforzi disperati, e più tardi, si smette di cantare essendosi convinti che si ha la voce stonata.
Di voci stonate, non ce ne sono, oppure, se proprio si vuole, ce n’è una su mille; tuttavia io ho spesso trovato in ogni parrocchia degli ecclesiastici che sono convinti che la natura gli ha rifiutato il dono di una buona voce. Io ho insegnato a persone di tutte le età che mi si presentavano dicendomi di essere stonati; se li facevo esercitare per otto giorni, nella loro giusta estensione, gli facevo recuperare un organo vocale di una grande purezza, di una intonazione perfetta. E’ che la voce, come per altri organi, ha bisogno di un esercizio costante e ben diretto per adempiere agevolmente alle sue funzioni. Sia che si canti nelle nostre chiese in una estensione che permetta alla voce di tanta gente di spiegarsi senza sforzo, sia che si insegni nelle nostre scuole i primi elementi del canto, non si troveranno in Francia delle voci stonate se non per persone con malattia all’organo vocale.
I cantori vengono lasciati soli in questa incombenza. C’ è un’abitudine fastidiosa, c’è una causa di fastidio e di fatica per i fedeli. Se almeno le poche voci isolate alle quali è affidato il canto, lo eseguissero con cura e insieme, osservando esattamente le note, senza alterare l’antica tonalità per l’uso di diesis o bemolli, dividendo le frasi, respirando opportunamente, procedendo senza correre e senza pesantezza, seguendo con attenzione il ritmo sia per i passaggi veloci che per le pause; infine, cantando con purezza e misurazione, senza smorfie e sforzi, con una pronuncia perfetta, in modo religioso, con una emozione contenuta e comprendendo il senso delle parole. Ma i cantori delle nostre chiese sono molto lontani dal possedere questa perfezione, e non potrebbero senza preparazione e studio. Gli artisti che lavorano nei teatri sono sottoposti a continue ripetizioni, mentre non ci sono in Francia due chiese dove, regolarmente, si faccia studiare ai cantori il sabato l’ufficio del giorno dopo. E poi, quando anche si ottenesse a forza di prove e studio un’esecuzione meno imperfetta del canto, l’effetto sarebbe sempre limitato a qualche voce isolata. Ora, il carattere speciale del canto piano, che si riallaccia sicuramente alla musica degli antichi, è nato precisamente per essere eseguito da grandi masse che cantano, e per conseguenza deve essere il genere di musica più popolare di tutti.
Si è inventato da qualche secolo un sistema musicale che si basa su una tonalità tutta particolare e in rapporto con la scoperta dell’armonia, o musica a più parti, di cui gli antichi non ne facevano uso, e che non si accordava per niente con il loro sistema melodico. Questo nuovo genere di musica ha invaso l’Europa; è stato coltivato dai più grandi geni, ha prodotto dei magnifici capolavori; da Monteverdi a Beethoven, lo spirito umano si è esercitato su queste nuove combinazioni musicali, e le ha sviluppate, ingrandite, arricchite, come noi oggi le vediamo. E’ un progresso ammirevole, di cui bisogna ringraziare il primo autore delle arti e delle conoscenze umane, ma non è meno vero che, da più di trenta secoli, esisteva un altro genere di musica, che era bastato alle civiltà più avanzate, aveva eccitato l’entusiasmo dei popoli più importanti della storia, e esiste ancora non solamente nelle nostre chiese, ma nei canti popolari di tutte le nazioni, e che ha delle chiare affinità con i sistemi musicali dei Greci, degli Orientali, dei Cinesi, degli Africani stessi. Ora, senza negare in alcun modo il progresso, senza respingere dal santuario l’omaggio delle scienze e delle arti umane, tuttavia non possiamo non far notare che un sistema musicale che è bastato all’umanità per trenta secoli, e che il rumore e la potenza della musica moderna non ha potuto cancellare completamente, non può non richiamare l’attenzione di quelli che ne sono gli ultimi custodi.
Questi ultimi custodi dell’antico sistema musicale sono i membri della chiesa cattolica che ne possiedono nel canto piano una traccia viva e preziosa. Questo deposito doveva essere trasmesso, di età in età, in tutta la sua purezza, e si doveva respingere come un sacrilegio ogni alterazione a questo insieme, a questo corpo del canto ecclesiastico, opera dei Santi, testimonianza della loro sapienza e del loro zelo per la magnificenza del culto esteriore.
Ora, se è provato che questo canto non deve essere eseguito da qualche voce isolata, ma da una grande voce di tutti i fedeli riuniti nel tempio; se è vero che si è lasciato snaturare questo canto e la sua esecuzione e che non ha più oggi l’immenso successo di altri tempi e che è dimostrato che la gloria di Dio, lo splendore del suo culto, e per conseguenza la salute delle anime sono in gioco in una simile questione, quale è il sacerdote e il cristiano che rimarrà indifferente alla restaurazione del canto ecclesiastico? Bisognerebbe che San Gregorio, San Bernardo, Sant’Agostino ritornassero tra di noi per scrivere opere sul canto ecclesiastico, raccomandandocene la pratica, insegnandoci essi stessi gli elementi, perché si porti a queste cose l’interesse che meritano?
Sono trent’anni che si dice e scrive sullo stato del canto piano, riflessioni giuste, in grado di attirare l’attenzione. Prima di me, e molto meglio di me, un uomo di una scienza profonda, Choron, aveva provato a riaccendere lo zelo del clero per il lavoro di restaurazione del canto religioso. Questo grande artista possedeva un patrimonio considerevole, che ha speso tutto intero per la realizzazione delle sue idee per la riforma del canto religioso. E’ morto in uno stato vicino all’indigenza, senza aver fondato niente di duraturo, senza essere riuscito a far aprire le porte di una sola parrocchia della capitale per i suoi lavori.
Dopo Choron, sembra che dopo l’indifferenza che ha accolto i suoi sforzi, abbia trovato spazio almeno in qualche luogo un inizio di interesse per questa opera importante. Infatti le chiese di Parigi di solito organizzano meglio il loro coro; le principali cattedrali, per le cure dei loro vescovi, hanno migliorato un po’ il loro canto; ma nessuna riforma radicale è stata tentata, nessuna scuola è stata fondata, nessuna iniziativa seria è stata iniziata per la rinascita del canto ecclesiastico.
E’ tempo tuttavia di scuotere questa funesta indifferenza; se non si sta attenti, ci si troverà un giorno nell’impossibilità di cantare, bene o male, l’ufficio divino; e ci sono delle città importanti, delle diocesi intere, dove già si è ridotti a celebrare solo delle messe basse. L’antica e venerabile metropoli di Vienna, la chiesa di Saint-Mamers, l’antica primaziale delle Gallie , malgrado lo zelo del degno curato, sono arrivate a questo deplorevole risultato; e va già bene se nei giorni di feste solenni, con l’aiuto della voce dei vicari, si canta la Messa Grande. Nelle diocesi di Bordeaux, di Périgueux, d’Agen, molte parrocchie non hanno la messa cantata; e in un gran numero di parrocchie in Francia il parroco e il vicario eseguono da soli il canto degli uffici.
Nelle chiese di Parigi, in apparenza ben forniti di cantori dalla voce sonora e potente, si dipende dai teatri; infatti il giorno che al direttore dell’Opera venisse voglia di proibire ai suoi dipendenti di cantare nelle chiese, subito venti e più parrocchie a Parigi sarebbero costrette a messe basse (non cantate). Non è che si vengano a strappare i bambini piccoli dal coro delle nostre chiese, dai piedi dei nostri altari, per portarli dietro le quinte e sulla scena dell’Opera. Tuttavia, ci sono un ministro dell’Interno, un direttore delle Belle Arti, dei commissari reali, che regolano l’impiego dei sussidi accordati ai teatri dalle Camere, e che permettono che si prelevino alla Religione e all’Arte dei poveri bambini di dodici anni. Rivestiti degli orpelli del teatro, sperduti in mezzo ai gruppi di ballerini e ballerine, questi bambini vengono presto danneggiati e fatti avvizzire; ma l’allettamento del guadagno vince su ogni altra considerazione nello spirito dei loro genitori.
Si pensa che questo stato di cose dovrebbe allarmare il clero, che misure energiche e decisive dovrebbero essere prese per salvare da completa rovina il canto ecclesiastico; niente, tuttavia, è stato fatto, se non qualche tentativo isolato senza alcun risultato apparente. Il fatto è che non si è convinti che il canto delle nostre chiese sia sconveniente e difettoso; che chi è abituato dall’infanzia ad ascoltare queste dissonanze, non si sente offeso; che nei seminari non si riceve l’educazione musicale che formerebbe il gusto, e renderebbe l’orecchio più sensibile; infine, che il sacerdote, lontano dalle assemblee mondane per i suoi doveri e le sue virtù, non può paragonare il canto ecclesiastico alla musica profana. Quest’ultima regna nei salotti, nei teatri, è circondata da un corteggio brillante di vari strumenti, è abbellita dal progresso delle arti, arricchita ogni giorno da nuovi effetti; seduce e appassiona per la bellezza dei suoi canti, la dolcezza delle sue voci e la potenza dei suoi suoni. A Dio non piace che noi domandiamo alla Chiesa di andare a prendere a prestito da questa musica la sua vaghezza e le sue seduzioni; noi vogliamo invece, ai piedi degli altari, una musica calma, seria, solenne, la musica che ai Santi piaceva, ma la vogliamo in tutto il suo splendore e magnificenza, nel suo carattere sublime e austero, che porta al rispetto e innalza l’anima a Dio, che favorisce il raccoglimento; non sono i cantori e il canto di oggi delle nostre chiese che otterranno questo risultato. Io auspico, e anche domando, che si cacci dal santuario la musica profana, ma a condizione che si proibiscano anche i canti barbari che vi risuonano oggi; la routine e l’abitudine li hanno potuti tollerare fino ad oggi, ma il gusto e la pietà illuminata devono proibirli per il futuro.
Il contributo del Danjou all’accompagnamento dell’organo al canto ecclesiastico
Un altro impulso dato dal Danjou all’evolversi di una nuova sensibilità nel riformare la musica sacra fu relativo all’accompagnamento del canto gregoriano; da pochissimo in alcune chiese parigine si era cominciato ad accompagnare con l’organo il canto[117], mentre andava diffondendosi l’harmonium[118]; nel capitolo sotto riportato dell’Ėtat de la musique[119] il Danjou intende fornire un inquadramento storico e ideale per tale uso: se le voci scoperte sono la perfezione della musica vocale sacra, l’accompagnamento diventa necessario quando il canto non è eseguito da professionisti; l’organo già accompagnava le voci nell’antichità, mentre è evidente l’antimusicalità dell’uso attuale di raddoppiare le voci con strumenti di recente origine. L’organo non solo è adeguato come sonorità nel sostenere anche un grande numero di persone, ma offre anche il colore adatto laddove la musica abbia le connotazioni di “santità” e si mantenga nei limiti del “grave, dolce, religioso”. Lo stile degli organisti deve a suo volta ispirarsi al severo e austero esempio dei migliori musicisti del passato e liberarsi dalle tentazioni della teatralità. Il modello supremo dell’invenzione compositiva melodica è il canto gregoriano, preso come riferimento di valore anche dal punto di vista strettamente musicale; l’improvvisazione -elemento ovviamente non controllabile a priori- deve restare in parametri esteriormente rapportabili al rito oppure non deve esistere del tutto; l’alternativa è quella di limitarsi a suonare la musica dei grandi maestri: la musica di determinati autori individuati preliminarmente è dunque paradigma e canone a cui attenersi[120]. La stessa posizione dell’organo, che sia in coro o in controfacciata, deve tener presente primariamente la possibilità di accompagnare le voci. Ecco dunque profilarsi la poetica del suono organistico come suono legato ad un ambito espressivo limitato a “ciò che compete la religione”, a ciò che deve distinguere un sentimento di purezza e di alterità rispetto a ciò che è mondano. L’organo può rifiutare qualsiasi atteggiamento esteriore profano e limitarsi a ciò che raffigura la rinuncia alla sensualità e alla teatralità, perché il suo compito è rispecchiare ciò che è l’atteggiamento del fedele nel tempio, ossia la devozione e la supplica[121].
Il quadro ideologico è destinato ad avere fortuna: se presso grandi autori di musica organistica ha fornito materiale di ispirazione e di sicura riuscita -nelle musiche di Franck o di Reger, per esempio- in molta produzione per organo si è assistito all’ambiguità fra facile/liturgico, inespressivo/devoto, con creazioni basate su un sentimentalismo convenzionale. La distanza fra referenzialità o funzionalità da una parte e musica assoluta dall’altra ha fatto distinguere la musica d’organo da concerto -si vedano i brani maggiori di Listz o le sinfonie di Widor o Vierne o le sonate di Hindemith, ad esempio- dalla produzione liturgica, in arretrato rispetto alle correnti vive della storia della musica in virtù di una autoesclusione dalla temperie storiche e di un’azione normativa esterna dettata dal Motu proprio del 1903.
Utilizzo dell’organo nell’accompagnamento
Quando i cori non sono composti da bravi artisti, è indispensabile sostenere e accompagnare le voci con il suono di uno strumento. Alla cappella Sistina si canta sempre senza l’aiuto di alcun strumento, e questo sarebbe la perfezione della musica sacra, se i coristi delle nostre chiese e i fedeli che si uniscono a loro fossero navigati nell’arte del canto come i musicisti della cappella papale. E’ per un simile motivo che l’antica liturgia di Lione aveva rifiutato l’uso dell’organo. In altri tempi, questa illustre metropoli possedeva un coro numeroso di cappellani, scelti fra i sacerdoti dotati di una bella voce e versati nel canto piano. Oggi, le parrocchie più ricche non saprebbero riunire voci abbastanza preparate da poter fare a meno dell’accompagnamento.
Anticamente si sosteneva il canto con diversi strumenti, tra i quali c’era l’organo positivo, molto diffuso in tutto il Medio Evo. Allora si cantava in falso bordone, e ogni parte era raddoppiata da uno strumento. Sotto Luigi XIII, un canonico inventò il serpentone, strumento rauco, aspro, diseguale, variabile nell’intonazione, che è presente in tutti i nostri cori, che rende il canto pesante e trascinato, e che altera le voci e provoca la più noiosa monotonia. E’ un triste spettacolo vedere un uomo con le guance gonfie, il viso deformato, con gli occhi che girano nelle orbite, che strangola con le sue braccia la figura di un animale immondo e sembra farlo gridare lugubremente! In tanti posti l’oficleide ha spodestato il serpentone; è un po’ meno brutto da vedere, ma da ascoltare non è meno sgradevole. Infine, molte parrocchie usano oggi il contrabbasso. Tutti questi strumenti hanno lo stesso inconveniente, che dovrebbe farne abbandonare l’uso: suonano all’unisono con le voci gravi, e quindi non è utile alla voce del popolo; inoltre sono affidati a musicisti poco preparati, che invece di suonare solamente il canto, inventano degli accompagnamenti, degli abbellimenti di pessimo gusto, che sono l’imitazione del machicotage, che fortunatamente è stato abbandonato.
Lo strumento più perfetto per dirigere e sostenere il canto, quello il cui suono meglio si sposa con le voci, è certamente l’organo; in poco spazio, con le mani di una sola persona, con l’organo si può ottenere la potenza, la diversità, la precisione che non potrebbero dare trenta o quaranta strumenti riuniti; come dice Montaigne, il suo suono è severo e devoto; abbraccia tutta la scala dei suoni e può unirsi a tutti i generi di voci; ha dei registri diversi tra loro, dolci o squillanti, soavi o terribili; le sue trombe sembrano annunciare il giudizio di Dio, i suoi flauti lontani sembrano l’eco dei concerti degli angeli; l’organo è l’orchestra che richiede il canto piano. Ma l’organo di cui parlo non è quello che risuona nelle nostre chiese, che è profanato ogni giorno da una musica frivola, mondana, senza dignità, senza unzione (sacralità), e soprattutto senza arte.
L’utilizzo naturale dell’organo è l’accompagnamento delle voci. In Germania, Italia, Inghilterra, Belgio, l’organo adempie sempre a questa funzione e dappertutto il coro mai è separato dallo strumento. Nelle grandi basiliche dell’Italia ci sono degli organi portatili che seguono il coro nelle varie cappelle dove si sposta per cantare l’ufficio. In queste chiese si esegue tutto con l’accompagnamento, non solo gli inni sacri, ma anche il canto del celebrante, le risposte dei fedeli, e tutte le parti dell’ufficio e della messa. In Francia l’organo, relegato sulla grande porta d’ingresso, divide col coro l’incombenza di cantare l’ufficio divino; qualche voce isolata canta il Kyrie, l’organo risponde con una fantasia alla maniera dell’artista. Dio sa quale fantasia! Il sacerdote intona l’inno di Sant’Ambrogio, Te Deum laudamus, l’organista continua con una reminiscenza di qualche opera alla moda: ecco il ruolo che svolge l’organo in Francia. Ci sono delle eccezioni, ci sono organisti dallo stile severo, austero, religioso; tutti li conoscono e vengono additati a distanza; gli è stata affibbiata una qualifica: si chiamano noiosi, da noi è un soprannome fatale, che fa perdere colui che lo porta.
Quali miglioramenti si possono introdurre? Se c’è da piazzare un organo nuovo, bisogna sistemarlo nel coro, oppure disporre la tribuna in modo da poter avere i cantori attorno allo strumento. Nelle chiese dove già c’è lo strumento, si deve o portare il coro in tribuna, oppure procurare un secondo organo per l’accompagnamento. Infine bisogna pretendere dagli organisti o che improvvisino sempre composizioni in stile grave, dolce, religioso, spesso ispirato al gregoriano; oppure che si limitino a leggere e suonare la buona musica dei grandi maestri.
Franck e l’accompagnamento al canto gregoriano
Dopo che il curato di Notre-Dame-de-Lorette, l’ Abbé Dorcel, era diventato parroco di Saint-Jean-Saint-François, nel 1851 Franck era stato assunto come organista in quella parrocchia[122]; lo strumento che aveva a disposizione era un Cavaillé-Coll di 18 registri che era stato presentato ad una Esposizione parigina e successivamente ivi installato e inaugurato il 29 dicembre 1846. Il canto, qui come in altre chiese, consisteva in una tradizione di melodie a note uguali derivate dal canto gregoriano e raddoppiate all’unisono dal serpentone[123]. Poco a poco l’accompagnamento venne sostituito dall’armonizzazione in falso bordone, sillabico e consonante.
Agli inizi degli anni 50 il movimento di rinnovo del canto gregoriano entrò nella scuola con L. Niedermeyer, che pose lo studio del canto gregoriano, di Bach e di Palestrina alla base della sua École de musique classique et religieuse del 1853. Lo scopo era quello di formare, in un’ottica molto differente da quella dei Conservatori, dei maestri di cappella preparati e competenti. Sul canto gregoriano comparvero opuscoli di Adrien La Fage, Théodore Nisard, Charles de Coussemaker, D’Ortigue (Dictinnaire liturgique du plain-chant, 1853); Franck non prese parte al dibattito. Il suo incontro con il canto gregoriano derivò sicuramente dalla pratica liturgica, mentre l’incontro con Lambillotte fu dovuto a circostanze particolari. La legge Falloux del marzo 1850 aveva permesso la riapertura in Francia dei collegi dei Gesuiti; nell’autunno del 1852, su un vasto terreno a Vaugirard, fu inaugurato un collegio dedicato all’Immacolata Concezione. Qui Franck era stato chiamato a insegnare pianoforte. Nel 1854 Lambillotte aveva lasciato Brugelette per assumere le funzioni di maestro di cappella nel collegio di Vaugirard. E’ probabile che l’idea di redigere un accompagnamento alle melodie gregoriane sia venuto su sollecitazione dello stesso Lambillotte, ma è chiaro che vi poteva essere un interesse editoriale vivo da parte di case editrici musicali in ordine alla necessità di approntare sussidi pratici per un accompagnamento liturgico che si andava via via sempre più chiaramente delineando. Gli accompagnamenti di Franck sono del 1857; la prefazione è l’unico testo teorico scritto che abbiamo di Franck, ma per quanto concisa, essa rivela, punto per punto, una esatta informazione sugli elementi di discussione e un’altrettanto precisa presa di posizione.
“Si è d’accordo in generale che accompagnare correttamente il canto gregoriano è cosa difficile. Il maggior numero di melodie in uso nella Chiesa hanno una carattere talmente speciale, talmente lontano dalle nostre concezioni musicali odierne, che occorre, nell’armonizzarle, fare astrazione, per quanto è possibile, della nostra propensione verso la tonalità moderna, per conservare al canto gregoriano la sua tonalità e, di conseguenza, la sua fisionomia propria. Questa difficoltà è sembrata così grave ad abili artisti, da tenerli riguardo all’accompagnamento al canto gregoriano in una lunga incertezza, facendoli quasi disperare riguardo a una conciliazione così desiderata quanto difficile, tra due elementi che non sembrano fatti l’uno per l’altro. Noi ammettiamo francamente che restituendo alle melodie gregoriane, secondo i manoscritti antichi, il loro andamento primitivo, non si ha avuto il proposito di facilitare il compito all’organista, e proprio rinunciando all’uguaglianza temporanea di tutti i suoni , si è dovuto togliere una delle facilitazioni che l’ultimo secolo gli aveva procurato, così come (si è tolta) ai contrappuntisti; ma l’uso dell’organo accompagnatore, divenuto quasi universale al giorno d’oggi, è un fatto che ha tolto ogni esitazione, almeno quanto alla necessità di questa pubblicazione. Era urgente offrire accompagnamenti scritti a coloro che saranno chiamati a sostenere al coro le melodie gregoriane, evitando che l’organo diventi, in mani non abili, un ostacolo piuttosto che un aiuto.
Ma occorreva tenersi in guardia contro ogni esagerazione sistematica, e non disgustare i fedeli a forza di arcaismi. Occorreva inoltre avere esatta cognizione delle risorse musicali che possono offrire le nostre parrocchie e rendere l’esecuzione possibile agli organisti meno esercitati. Noi ci siamo impegnati a salvaguardare questi due punti, non essendo stato nostro scopo, in questa breve introduzione, di dare un trattato per l’accompagnamento, cosa che potrà essere oggetto di un altro lavoro, noi lasciamo ai conoscitori la cura di apprezzare l’opera che è a loro offerta.” [124]
Nelle osservazioni pratiche che seguono è da registrare come Franck abbia voluto scrivere a tre voci “pour plus de facilité” isolando una voce alla sinistra, in modo da poterla raddoppiare con l’ottava o con il pedale e all’occorrenza farla eseguire al contrabbasso o all’oficleide, mettendo al loro posto strumenti che “ne sont pas faits pour jouer à l’unisson du chant, suivant l’usage déplorable suivi presque partout”. La tessitura delle melodie è tale che possa essere eseguita comodamente dalle voci d’uomo ma nello stesso evita l’uso di certi cantori di non voler oltrepassare il la dell’ottava media, con il risultato di esecuzioni di voci “caverneuses” che non potrebbero essere usate nelle parti di basso nelle musiche scritte correttamente.
Nelle osservazioni relative all’Innario[125], dopo aver descritto il contenuto, si ribadiscono alcuni concetti:
“Quelque complet que soit nôtre travail, nous ne nous flattons pas d’avoir paré a toute les éventualités. Mais en disposant nôtre harmonie pour soprano, ténore et basse, nous croyons avoir répondu aux ressources les plus ordinaires dans les églises; d’autant que le ténor n’est jamais écrit assez haut pour reclame une voix exceptionelle, et que la partie de soprano n’est jamais étendue.
[…] Quelque simple que paraisse le genre de ce musique que nous offrons ici aux maitrises, nous ne croyons pas qu’il se puisse aisément improviser. On n’atteindra jamais sans quelque travail l’égalité de son, la justesse et la douceur qu’un pareil chant réclame- Or vaut mieux cent fois un unisson correct qu’une harmonie défectueuse.”
La valenza pratica dell’opera è manifesta, sia nel fornire un aiuto pratico di supporto tecnico, sia nell’indirizzare a un gusto musicale di contenuti qualitativamente adeguati; tanto l’uno che l’altro punto sono da inserire nell’ottica di un fare musica di livello popolare senza rinunciare alla qualità, dunque rapportandosi a un corpo musicale trasversale (quella dei cori) avente una sua personalità precisa di possibilità “medie” e richiedente una sua musica. Ma è chiara anche la consapevolezza di una “distanza” con la musica del tempo, dalla quale occorre fare astrazione, così come sono chiari i caratteri della musica di chiesa, la cui “uguaglianza di suono” e “dolcezza” sono immediatamente rapportabili a quanto si andava canonizzando in ambito ecclesiastico per uno statuto della musica sacra[126] e riporta alle discussioni riguardo alle passioni o al ritmo piuttosto che alla definizione di caratteri propri della musica devozionale. Il suo accompagnamento non fa altro che rispettare e mantenere la purezza e semplicità del canto, restando nel solco di una definizione globale di musica sacra diversa dalla musica religiosa[127]. Ma nello stesso tempo Franck propone la sua “misura” nel rivolgersi ai cantori: egli dichiara di fare astrazione della propensione alla tonalità moderna “per quanto è possibile”: egli non si avventura nel campo della modalità pura, mantenendo un legame con la contemporaneità per ciò che riguarda l’orecchio musicale; il suo accompagnamento avrà una conformazione che, pur impiegando collegamenti modali, si avvale di cadenze perfettamente tonali, aderendo quindi al principio dell’inserimento di alterazioni che inquadrano la tonalità. Il suo contributo quindi non opera un travalicamento dell’orecchio e della cultura, come pure si andava teorizzando e attuando da parte di alcuni musicisti; piuttosto, Franck si propone, partendo dalla sensibilità comune, di mediare fra ricostruzione storica (“restituendo alle melodie gregoriane, secondo i manoscritti antichi, il loro andamento primitivo”) e modernità di vissuto, realizzando un clima musicale che renda la suggestione identitaria del canto sacro e ne permetta l’attuabilità.
La stessa raccomandazione di non improvvisare o di svolgere un lavoro preparatorio rimanda all’idea di entrare nel mondo della musica di chiesa con proprietà, e l’uguaglianza ed esattezza esigono un’oggettivazione del sé, un adeguarsi ad altro senza far intervenire intenti personalistici o addirittura esibizionistici, semplicemente calibrandosi sulle necessità del canto, in una perfetta simbiosi ugualitaria con i cantori e con la “dolcezza” reclamata dalla configurazione e dalla funzione del canto[128].
Il successo dei tre volumi fu notevole, tanto che furono ripubblicati nel 1912[129]. L’accompagnamento scritto da Franck al canto gregoriano in notazione moderna predisposto dal Lambillotte, fu pubblicato in tre parti, diviso in cinque sezioni:
Ordinario per le messe dell’anno.
II e III- Innario romano, con ogni inno armonizzato per organo, in una estensione comoda per coro maschile all’unisono, e un’altra più acuta a tre o quattro voci.
IV e V. 1. Prose e Sequenze
Antifone per le feste maggiori della Beata Vergine
Vari inni per la Benedizione
Falsi bordoni.
Nel suo accompagnamento Franck segue la pratica nuova dell’epoca, consistente in un raddoppio della melodia cantata al soprano con una scrittura a tre o quattro parti scritte in modo tale da lasciare isolata la parte del basso che all’occorrenza può essere raddoppiata dal contrabbasso o dall’oficleide[130]. L’altezza delle note è tale “che le voci di uomo possano raggiungere le note estreme di ciascun pezzo”[131]. Egli deplora l’abitudine di certi cantori di non oltrepassare il la dell’ottava centrale e “fanno voci talmente cavernose che non si potrebbero nemmeno impiegare nelle parti di basso più ordinarie”; consiglia di non accompagnare all’organo le note di passaggio (“un organista di gusto potrà qualche volta accompagnarle nei tratti ascendenti”), e inoltre scrive di “tenere le note comuni a più accordi consecutivi fin tanto che si mantengono nell’armonia”[132].
A grandi linee si è delineato lo spirito con cui Franck si avvicinò alla musica d’organo: egli fu estraneo alle punte più mondane dei colleghi organisti fin dagli esordi compositivi organistici e disegnò da subito una poetica che consisteva di un nobile controllo dell’ispirazione musicale e in un rifarsi ai modelli strumentali tedeschi di Beethoven o Mendelssohn o, più tardi, di Wagner per la musica di più ampio respiro, ai modelli di musica per il culto per la produzione minore; proprio in tal senso fu còlto il valore della sua produzione organistica, sicuramente non di successo lui vivente quanto quella dei Batiste o Lefébure-Wély, ma caposaldo ed esempio per la successiva generazione di organisti che da lui presero le mosse nell’interpretare il suono organistico come supporto per musica di alti contenuti e di alta spiritualità.
Il contesto culturale specifico: le regole per l’accompagnamento al canto gregoriano
L’uso dell’organo come accompagnatore del canto liturgico era, come si è visto, cosa relativamente nuova; il Fétis nel 1843 ne considera il ruolo dell’organo come esecutore in alternanza al canto: l’organo mantiene la funzione di “dare il tono” al coro:
“Non è sufficiente che i preludi dell’organista siano nel tono del brano gregoriano al quale servono di introduzione; occorre anche che termini in modo da essere in rapporto con la nota con la quale inizia il canto”[133].
Ritiene necessario che si arrivi al sostegno del solo organo:
“Non terminerò questa prefazione senza esprimere il voto che il serpentone e l’oficleide scompaiano dalla chiesa. Con questi strumenti nessuna buona esecuzione è possibile, e la maniera con cui suonano con il coro non è destinata a affievolirne i difetti. Mancando di precisione di intonazione, finiscono per falsare le intonazioni dei cantori. Questi non devono essere guidati che dal suono dell’organo, i cui suoni, tanto dolci quanto potenti, sviluppano nell’anima una certa emozione religiosa a cui il serpentone e l’oficleide sono contrari”[134].
I consigli del Fétis per ciò che riguarda l’accompagnamento affrontano i problemi dell’accompagnamento da un punto di vista pratico, con uso del trasporto, della tonalità e della modulazione alle tonalità vicine; egli ammette l’uso dell’armonia moderna, purché temperata da sobrietà di ordito:
“(79) Dans les anciens temps, l’organiste, se conformant à la tonalité du plain-chant, accompagnait ce chant par une harmonie non modulante […] Insensiblement, on a essayé d’appliquer la tonalité moderne à l’accompagnement du plain-chant sur l’orgue, et cet usage s’est étendue de jour en jour; par suite de cet usage, l’accord tempéré de l’orgue a été adopté. En sorte que..de nouvelles indications doivent etre données pour opérer dans l’accompagnement et dans la modulation la fusion des deux tonalities, sans altérer toutefois la gravité du chant par de trop fréquentes transitions accidentelles. (81) Et d’abord, il est nécessaire de dire que les usages particuliers des églises et les genres de voix qu’on y trouve servent de règles pour la transposition des tons […].
“(83) A l’égard de la modulation, l’application de l’harrmonie moderne au plain-chant oblige à préparer des cadences corrispondantes à notre tonalité actuelle pour tous les repos marqués par des traits verticaux sur la portée, ou des modulations incidents pour les intervalles qui ne répondent pas à la tonalité actuelle.[135]
L’esempio che il Fétis propone, senza realizzazione per organo, riporta molte modulazioni, e nella nota relative ammette l’uso della sensibile diesis in cadenza per il 1o, 2o, 3o, 4o modo quando non vi siano false relazioni di tritono con ciò che precede o che segue.
Poco più di un decennio dopo, l’uso del sostegno organistico doveva avere notevole diffusione, se Adrien La Fage, dopo aver affermato che
“in molte chiese l’organo tiene il posto di uno dei (due) cori nei brani sopraelencati, con l’eccezione dei salmi”
e quindi in alternanza con il coro, registra:
“Se il gregoriano è accompagnato dall’organo, i cantori devono essere il più vicino possibile a questo, in modo che si senta bene da una parte e dall’altra [….]. Niente è più spiacevole né più ridicolo di un accompagnamento la cui marcia non è rigorosamente quella del canto, […. ] l’effetto è scandaloso”[136].
Il Danjou dalle pagine della sua rivista fornisce regole teoriche e pratiche per l’uso dell’organo nell’accompagnamento: non solo risulta evidente la praticità nel sostenere un grande corpo sonoro costituito dalla massa dei fedeli, ma è identificata anche la natura coloristica, per così dire “santa” del suono organistico:
“Tutti hanno riconosciuto che i suoni gravi e dolci di questo strumento erano i più propri a risuscitare la maestà del canto ecclesiastico, a nascondere la rudezza e l’insufficienza delle voci, a diffondere nel popolo il senso dell’armonia”[137].
L’organo deve essere usato in modo appropriato: infatti occorre che il canto gregoriano sia trattato secondo le antiche regole del contrappunto e della tonalità ecclesiastica; altrimenti, nelle mani dei moderni artisti, che accompagnano secondo il gusto dell’armonia moderna, viene snaturato il carattere dell’antico canto. Bisogna quindi conoscere ciò che hanno insegnato gli antichi autori dal XIII al XVI secolo per rispettare la natura di questo canto: per esempio non bisogna accompagnare operando modulazioni a cui il contorno melodico può prestarsi, atteso che la modulazione presuppone il concetto di tonalità maggiore e minore estranea ai modi gregoriani. La conoscenza delle scale antiche è dunque il primo passo; in esse non v’è traccia di cromatismo; l’unica possibilità di cambiamento essendo legata al rapporto di tritono fa-si, per il quale è possibile modificare per eufonia una delle due note. L’accompagnamento deve mettere da parte le risorse dell’armonia moderna perché, oltre ad essere estranea ai modi ecclesiastici, è diventata complicata, ricercata e meno popolare. Il vero spirito liturgico rifiuta lo spirito della moderna armonia. Le opinioni che si registrano all’epoca vanno dalla perentoria affermazione dell’impossibilità di qualsiasi accompagnamento fino alla necessità di trovare un compromesso rispettoso della fisionomia originale:
Uno dei primi interventi da registrare è quello del Choron e del La Fage, che descrivono l’uso corrente qualche anno dopo l’introduzione dell’accompagnamento al plain-chant:
“Les modes du plain-chant ont une costitution et des affections très différentes de celles des modes de la musique. Aussi explique-t-on assez mal les uns par les autres: c’est cependant le fait de la plupart des musiciens qui se melent de musique d’èglise de se contenter de ces explications superficielles. Nous pouvons certifié que rien ne décèle plus de légèreté et d’ignorance que la facilité avec laquelle on adopte et l’on reproduit ces interpretations on ne peut plus fausses et incomplètes.”[138]
Alcune prese di posizione sono radicali:
“Le plain-chant à l’usage du culte, le chant liturgique est incompatible avec l’harmonie, et celui-ci en détruit radicalement le caractère. L’harmonie est absolument étrangère au plain-chant.”[139]
“Notre opinion a toujour été que le plain-chant ne devait recevoir d’accompagnement d’aucun espèce, mais être exécuté par des voix seules à l’unisson et à l’octave”[140]:
La questione rimanda sempre all’elemento passionale, istintivo e corruttivo della musica profana, espresso primariamente attraverso la dissonanza, in opposizione alla ragionevolezza e autocontrollo del canto gregoriano:
“Et lorsque un hardi compositeur, guidé par un istinct dont sa raison n’avait pas la conscience […] s’avisa tout à coup de mettre en rapport ces deux intervalles(Mi contra Fa) […] il comprit bien qu’il avait inventé l’harmonie dissonante, mais il ne comprit pas qu’il venait d’anéantir la tonalité consonnante du plain-chant; qu’en trouvant l’élément de la transition ou la modulation, il avait substitué l’expression humaine passionnée à l’expression tranquille, auguste et calme du chant grégorien; qu’en un mot, il avait ouvert les écluses par où les grandes eaux de l’inspiration mondaine allaient envahir et subjuguer le sanctuaire.”[141]
I termini entro cui si muovono le discussioni sono riconducibili a quale armonia sia più rispettosa dei modi antichi:
“Je me trouve forcément en face de deux systemes qui se disputant le terrain de l’harmonie convenable au plain-chant…Le première de ces systèmes professe à haute voix qu’il ne faut appliquer au plain chant que les accords employès avant la fin du XVIe siècle, époque où Claude de Monteverde créa instinctivement la tonalité de la musique moderne. Le seconde, et c’est la pratique sinon universelle, du moins générale, considère le plain-chant comme une musique incomplète, en corrige les diverses gammes d’après les deux types majeur et mineur de l’art acque, et y assouplit sans scrupule les théories de l’harmonie contemporaine[142].
“L’accompagnement de ce chant immuable doit, pour être correct et logique, se conformer absolument à sa tonalité, c’est-à-dire à la manière diatonique dont les notes s’y enchainent et se succèdent. Ce mode de succession ou d’enchainement étant tout-à-fait distinct de celui qu’adopta la musique modern, c’est mettre l’anacronisme en musique, c’est habiller un héros des temps classiques avec une costume du Journal des modes. La tonalité antique n’admettant ni les modulations, ni l’accord de septième qui les engender, ni tout autre dissonance, mais procédant toujours au contraire par accord parfaits, carrés comme les notes du plain-chant, l’organiste doit par consequent connaître la succession des accords parfaits sans modulation.”[144]
A tal proposito è utile riportare qualche parere riguardo all’uso della settima di dominante: tale accordo, avendo in sé una tensione fra sensibile e controsensibile, poteva turbare il senso di calma e di riposo che è caratteristica della melodia gregoriana, così come, dal punto di vista pratico, poteva creare dei poli di attrazione o delle modulazioni non teorizzate nell’antica teoria modale da cui sempre muovono i fautori della restaurazione.
“Qu’est-ce, en effett, que cet accord de septième sur la dominante? C’est la base de notre tonalité moderne. Retranchez-le et la musique, tel que nous l’entendons de nos jours, n’existe plus. La présence de cet accord suppose une gamme unique, majeure et mineure, ayant une dominante toujours placée à une quinte au-dessus de la tonique. Or, si l’on emploie la septième sur la dominante en accompagnant le plain-chant, il faut que cet accord soit placé sur la cinquième note de chaque gamme grégorien […] Ce simple exposé ne demontre-t-il pas jusqu’à l’évidence que l’accord de septième sur la dominante, c’est à dire sur la cinquième note de chaque gamme grégorienne, est une mostruosité qui dénature tout et que rien ne justifie.”[145]
Altro problema acuto era quello dell’uso del semitono in cadenza: la pratica e la teoria, già in epoca storica, avevano regolarizzato l’impiego del diesis in cadenza, ciò che creava movimenti obbligati nelle note degli accordi; l’armonia per forza di cose doveva venire a patti con la moderna tonalità, fermo restando che una progressiva maggiore conoscenza dei codici più antichi avrebbe poco a poco chiarito il problema dal momento in cui si fosse riscoperta l’antica fisionomia del canto gregoriano senza movimenti intervallari risolutivi in cadenza.
Interessante è la posizione del Fétis dalle colonne della Revue del Danjou, nella quale si evince come la sua soluzione è affrontatA secondo la prospettiva del seguire un’auctoritas della storia e non della ricerca personale, di fatto esulando dalla contemporaneità.
“A peine l’harmonie eut-elle été régularisée dans le mouvement, vers la fin du XIVe siècle, principalement per Guillaume Dufay et par Binchois, qui furent les plus habiles harmonistes de ce temps, qu’on reconnu la nécessité de mettere dans les terminaisons finales ou cadences de première,, deuxième, septième, huitième tons, la note placée immediatement au-dessous de la finale du ton à la distance seulement d’un demi-ton de cette finale, bien que, dans toutes les autres circonstances cette note conservât son intonation naturelle.”
“Les anciens composieurs des XVe et XVIe siècles doivent aussi nous servie des modèles pour les harmoniser, parce que, leurs ouvrage ayant precede le changement de tonalité, nous avons la certitude qu’ils suivirent les traditions les plus pures de la tonalité du plain-chant.”[146]
Equilibrata è la posizione del sacerdote insegnante di canto nel seminario di Malines, Janssen, che non si arrocca su esclusioni teoriche e traccia una maniera di accompagnare molto vicina a quella attuata un decennio dopo da Franck:
“Nous n’entendons aucunement rejeter la note sensible dans les parties intermédiares d’un accord, pourvu qu’elle ne soit pas de nature à induire les chantres en erreur […] Vous souffrirez parfaitement notre manière d’accompagner, vous la trouverez même belle, large et analogue à la mélodie du chant, si vous acceptez quatre conditions: 1 Qu’il faut avoir la convinction de la nécessité d’un tel accompagnement […] 2 Un accompagnateur assez versé dans le contrepoint et l’harmonie. 3 Des chantres qui rendent le chantcomme il doit être rendu 4 Un essai de quelque semaine […] le chant sacré demand à être accomagné, dans sa tonalité légitime, par des accords consonnants plaqués et enchaînés par des modulations prises dans les tons relatifs. Toutefois, nous ne désapprouvons pas l’emploi moderé de l’accord de septième de dominante ; car, à cause de sa grande douceur, il peut servir de temps en temps à contre-balancer la trop grande monotonie et à aplanir les trop grandes difficultés. Mais toujour faut-il que l’acompagnement soit grave, simple, sans preparations, sans retardements, sans syncopes et sans anticipations, en un mot, dépouillé de tous les petits agreements accessories qui servent à amener les modulations qu’on emploie dans la musique.”[147]
In un seguito di articoli riguardanti l’accompagnamento al canto gregoriano, il Danjou semplifica ed elenca alcuni consigli pratici. Senza entrare nel dettaglio eccessivamente tecnico, riportiamo gli aspetti essenziali della sua teoria. Restando nel solco dell’antica trattatistica, ma proponendo un “accompagnamento per le voci”[148], egli raccomanda di seguire le seguenti regole:
ogni accompagnamento deve cominciare e finire con le consonanze perfette: l’unisono, la quinta e l’ottava
non si possono fare due consonanze perfette di seguito
quando il canto ascende, la parte del basso discende e viceversa, ciò che si chiama moto contrario
non si può par sentire il mi (o si) contro il fa (si deve evitare il rapporto di semitono e di tritono fra basso e soprano -ammesso comunque in cadenza con l’accordo di 3/6 che va a terminare in ottava fra basso e soprano)
Nelle antiche musiche però i diversi suoni di una scala non avevano alcuna funzione particolare ed erano indipendenti fra di loro; nella tonalità moderna invece vi sono rapporti gerarchici fra i suoni. Nel canto non vi è né tonica né dominante e neppure sensibile: è possibile accompagnare tanto mantenendo l’ambiguità rispetto alla tonalità modernamente intesa, quanto alzando la sensibile nell’accordo sottostante per dare un senso di riposo. L’accompagnamento di tipo modale fornisce delle combinazioni particolari su cui autori anche molto istruiti non hanno forse mai riflettuto.
Data la melodia del Victimae paschali, l’accompagnamento secondo gli insegnamenti accademici sarebbe:
Si può nella finale far sentire nell’accordo la sensibile, ciò che nel canto gregoriano era usato per eufonia. Il loro uso è da mettere in relazione alla necessità di evitare il rapporto di tritono o, appunto, nel caso di cadenza che si vuol rendere perfetta[149].
Le scarne regole del Danjou, essenziali e pratiche[150], possono essere integrate da un articolo comparso nel Dictionnaire[151] dell’Ortigue, nel quale troviamo un compendio redatto da Théodore Nizard che ci permette di avere un quadro ampio delle opinioni diverse sull’accompagnamento all’altezza dell’anno 1853; fra esse vi è anche uno stralcio tratto da un contributo dello stesso Lambillotte al riguardo[152].
Il Lambillotte, che non ha espresso secondo il Nizard una teoria completa sull’accompagnamento[153], consiglia l’armonizzazione più semplice e conveniente alla tonalità antica; il canto è sempre al soprano gli accordi preferibili sono quelli perfetti, sono ammessi accordi modulanti e si può introdurre la sensibile nelle cadenze; i modi autentici e plagali sono accompagnati in modo identico[154].
Primo modo
Terzo modo
Quinto modo
Settimo modo
Passando in rassegna i vari metodi di accompagnamento, il Nizard inizia con l’esaminare quello che era stato in uso normalmente fino alla seconda metà del secolo precedente, ovvero l’uso di porre il canto fermo in tenore[155]; egli riporta il brano di apertura della Messe des Paroisses di Couperin ma avverte che “applicato al contrappunto vocale può avere i suoi vantaggi, ma in materia di accompagnamento è meno soddisfacente, deve essere usato da organisti esperti perché presenta estreme difficoltà di improvvisazione non compensati dai risultati[156].
Un altro modo di accompagnare è quello di Boely[157]: egli fa sentire il canto al basso, ma lo accompagna con fantasia di figurazioni fugate o fiorite, diversamente dalle “monotone successioni di terze e seste che stancano anche le orecchie più robuste”.
Il metodo di J. H. Knecht[158] prevede più modi di accompagnare una melodia posta all’acuto: cercando di volta in volta diverse armonie sotto lo stesso canto (l’esempio riportato mostra un’armonia del tutto romantica), ornando le parti interne, aggiungendo ornamenti fra una nota e l’altra della melodia gregoriana, con contrappunti scolastici, quindi con canoni e infine prendendo la melodia come soggetto di fuga[159].
Nel “sistema” di Sebastien Stehlin, del 1842[160], il gregoriano è posto alla mano destra[161] e riceve un accompagnamento scritto secondo le regole della tonalità moderna; la realizzazione ritmica è criticata perché non coerente e non conforme alle buone edizioni di canto gregoriano.
Il “sistema” di A. Miné[162] pone il canto al soprano e segue la tonalità moderna; a detta del Nizard, in esso non è seguita l’armonia che conviene al canto ecclesiastico e inoltre vi è una cattiva condotta delle parti, false relazioni e accordi mal concatenati.
Il Nizard non manca di esporre la propria idea di accompagnamento; egli si esprime subito a sfavore dell’uso degli accordi più appassionati dell’arte moderna nell’armonizzazione del canto piano, arrivando a sostenere che occorre eliminare anche l’uso del semplice accordo di settima di dominante, essendo questo un elemento fondamentale della moderna tonalità. Egli ammette la dissonanza di passaggio e di transizione, ma occorre evitare il contrappunto nota contro nota che appesantisce troppo, “come del resto si pratica dappertutto”.
“La purezza e i colori di certi contorni melodici, l’andamento piamente gioiosa e viva di molte melodie del culto spariscono e si alterano, prendono un carattere grossolano e barbaro grazie ai pesanti blocchi di accordi con cui si opprime, innocentemente senza dubbio, il canto di S. Gregorio”[163].
Le cause della rovina attuale e futura del canto liturgico sono l’armonia moderna che sfigura l’antico canto e l’armonia pesante fatta di accordi penosi. Egli distingue brani lenti, brani moderati e brani mossi, ciascuno da accompagnare con una propria frequenza di accordi; quando il movimento è moderato ciascuna nota può portare un accordo e ne risulta una pienezza armonica “che non manca di charme e di maestosa austerità”; se il tempo del canto è vivo o molto lento tale armonia diventa rispettivamente pesante o povera; nel primo caso è auspicabile una tessitura in cui a un gruppo melodico di note della destra corrisponda un accordo della medesima durata:
Nel secondo caso, a un accordo lungo della destra con la melodia gregoriana al soprano, possono corrispondere note di passaggio o di riempimento al basso. In pratica occorre usare un’armonia giudiziosa a seconda dei casi, conveniente alla tonalità ecclesiastica senza limitarsi ad un accompagnamento uniforme. L’armonia deve improntarsi alla semplicità di Palestrina ed anche a quegli autori prima di lui che restano compatibili con l’orecchio moderno; in ogni caso occorre evitare la difficoltà di esecuzioni o le forma più o meno canoniche e tutto ciò che esige un lungo studio di insieme e di esecuzione “tout ce qui ne peut pas être vraiment populaire”.
L’insegnamento più diffuso secondo cui occorre formulare l’accompagnamento con due soli accordi, l’accordo perfetto maggiore o minore e il suo primo rivolto va completato: questo può costituire la base dell’edificio, ma l’accordo di quarta e sesta è contenuto nelle scale gregoriane el’intervallo di quarta era previsto da teorici come Ucbaldo o Guido d’Arezzo; l’accordo finale deve avere una terza maggiore perché già gli antichi sostenevano “Fini tribuitur perfectio”; l’accordo di terza e sesta che contiene il tritono risolve secondo le regole palestriniane. L’accordo di settima può essere di due specie soltanto; un a come accordo di quinta e sesta sul quarto grado come settima minore ritardata e l’altra come nota di passaggio fra accordo di dominante e tonica. In sostanza tutta l’armonia deve essere consonante e gli accordi di settima non sono che accordi puramente consonanti modificati da un ritardo o da una nota di passaggio.
Dopo aver elencato una serie di regole di comportamenti armonici/contrappuntistici assai minuta desunta da trattati antichi (Tinctoris, Gaffurio, Vanneo, Berardi, ecc..) egli auspica che:
“l’accompagnamento delle melodie liturgiche arricchite di tutti questi accordi sui quali l’arte non si è ancora fissata deve offrire un campo più vasto, più variato, più ricco. Io desidero che il genio cristiano ne faccia un legittimo uso e rialzi degnamente la pompa dei santi misteri”[164].
Egli sconsiglia di accompagnare il canto piano in tenore (come era normale nel XVIII secolo nell’alternanza dell’organo) o anche al soprano quando vi è una sequenza armonica troppo complessa, perché non sostiene, non fortifica e non abbellisce il canto quando ci si propone di accompagnarlo; la melodia in questi casi è poco udibile e all’organo poco soddisfacente, pochi possono comprenderla e occorre un organista molto esperto. La melodia dunque deve essere al soprano; come insegnato da J. H. Knecht, accompagnata con accordi allo stato fondamentale o di rivolto, in modo che la semplicità non possa disturbare il canto.[165]
L’Ortigue dalle colonne del suo Dictionnaire non aveva mancato di esporre la sua opinione a sostegno della dell’idea di un canto gregoriano come sistema “inharmonique” ed “essentiellement mélodique”, a sfavore dell’accompagnamento:
“En premier lieu, ne perdons pas de vue que le plain-chant est fondè sur une ordre tonal tout différent de celui de la musique. Le plain chant repose sur l’ordre diatonique, la musique nest basée sur les deux ordres diatonique et cromatique, qui se sont mêlés et pénétrés l’un l’autre depuis la création de l’harmonie dissonante naturelle. Conséquentement…l’harmonie du plain-chant doit être purement consonnant […] Mais il faut observer, en second lieu, que le plain-chant est originairement mélodique; qui il a été formé à une époque où l’harmonie n’éxistait pas […] Maintenant je pose cette question. N’est-ce pas altérer le plain-chant dans sa nature, dans son expression, dans son caractère, que de lui appliquer rétroactivement un ordre de faits musicaux qui ne s’est manifesté dans l’art plusieurs siècles après son institution? Cette harmonie consonante […] ne fera-t-elle pas disparaître forcément les divers caractères que le plain-chant empruntait des huit modes ou des douze modes […]
Voilà pourquoi nous inclinerions à penser que, sauf des cas très-rare, et en faveur seulement de quelques faux bourdons consacrés, il faudrait mantenir au plain-chant son caractère de pure mélodie, qui est son caractère original et vraiment populaire.”[166]
Cionondimeno egli arrivò a firmare insieme al Niedermeyer un manuale di accompagnamenti:il mutamento di opinione è spiegato con un dovere da una parte, essendo la pratica dell’accompagnamento ormai corrente, e una specie di illuminazione/conversione dall’altra; senza arrivare a negare ciò che aveva espresso in precedenza:
“Et cependant, tandis que je parlais ainsi, il y avait là, sous mes yeux, un fait terribil, fatal, inexorable,, contre lequel il était impossibile de lutter: le fait de toutes les églises adoptant un plain-chant en harmonie, un plain-chant accompagné, par suite de l’introduction de l’orgue de choeur dans les temples.”
“Cette proposition:” le plain-chant est inharmonique”, je la maintiens encore, mais en faisant une distinction. Le plain-chant est inharmonique par la tonalité moderne..mais le plain-chant est harmonique par sa proper tonalité. En d’autres termes, la tonalité ecclésiastique posséde des energies telles qu’onen peut faire sortir naturellement une harmonie sui generis, en même temps qu’elel repousse une harmonie procédant d’un système constitué sur des bases different.”[167]
Il sistema ideato dal Niedermayer che convinse il D’Ortigue[168] si basava su due principi: il primo riduceva l’impiego delle note dell’accompagnamento alle sole note della scala, l’altro considerava gli accordi di finale e di dominante di ogni modo con funzioni analoghe a quelle esercitate dalle stesse note nella melodia; in tal modo viene introdotto il concetto di modalità nell’accompagnamento.
Mentre l’accompagnamento al canto gregoriano insegnato nelle classi di contrappunto del Conservatorio nelle tipologie “nota-contro-nota”, “accompagnamento vocale” e “contrappunto fiorito” secondo modelli classici di composizione era del tutto avulso dalla pratica liturgica, l’assimilazione di diverse suggestioni senza che vi fosse adesione esclusiva a un tipo di accompagnamento piuttosto che ad un altro permise a Franck di realizzare una sua armonizzazione al canto ecclesiastico, certamente non originale né particolarmente artistica, semplicemente di supporto alla pratica vocale dell’epoca: la melodia è sempre al soprano, l’accompagnamento è pressoché sempre consonante e realizza quella “uguaglianza” e “dolcezza” di cui Franck era consapevole interprete, in sintonia rispetto a quanto andavano auspicando i teorici della restaurazione del canto sacro.
L’analisi musicale evidenzia che negli Accompagnements vi è:
uso normalizzato di consonanze perfette:
ricorso esteso al moto contrario fra basso e soprano:
tritono ammesso solo con movimento melodico di semitono in soprano o in cadenze su 3/6 sul II o IV grado:
cadenze di tipo modale:
introduzione dell’alterazione della sensibile in cadenza:
possibili modulazioni suggerite dalla melodia:
esclusione sistematica dell’accordo di settima di dominante
uso di note di passaggio nella melodia o nel basso per grado congiunto:
Franck sembra muoversi dentro le coordinate di una contemporaneità che ormai ha definito l’ambito di riferimento per ciò che riguarda l’atteggiamento del musicista di chiesa; egli appare informato sui dibattiti e sulle proposte in circolazione, benché resti sul piano del musicista essenzialmente pratico: sia nel suo contributo all’accompagnamento, sia nella produzione di musica per la liturgia o per harmonium egli opera scelte consapevoli di stile e andamento, gli stessi che solcheranno il tempo a venire fino all’epoca attuale, ma che proprio al suo tempo furono elaborate tracciando, in un’ottica di separatezza, la strada per la musica liturgia.
Fausto Caporali
NOTE
[1] Per la ricchezza di spunti e di suggerimenti qui accolti si veda Jean-Yves Hameline, Le son de l’histoire. Chant et musique dans la restauration catholique, “La Maison-Dieu” nr. 131, 1977, 5-47.
[2] Alexandre-Étienne Choron (Caen 1772 – Paris 1834) fu musicista, pedagogista e pioniere nell’ambito della musicologia, dal 1811 ebbe incarichi da parte del ministero per riorganizzare l’insegnamento musicale. La sua importanza e la sua influenza furono indubbiamente notevoli presso i suoi contemporanei sia per le sue doti organizzative che per il suo spirito d’iniziativa nel riproporre antichi lavori corali.
[3] Alexandre E. Choron, Considérations sur la nécessité de rétablir le chant de l’Eglise de Rome dans toutes les Eglises de l’Empire Français, Paris, Courcier 1811, 15.
[4] Fondata nel 1817 e durata fino al 1831, l’Institution royale de musique classique et religieuse ebbe importanza indubbiamente notevole presso i suoi contemporanei sia per l’organizzazione che per il lancio di artisti o la promozione di esecuzioni corali. Lo snodo fondamentale rappresentato dal suo sistema educativo rispetto all’epoca precedente fu ben colto dal Fétis: “Son idée dominante consistait à faire passer le goût de la bonne musique dans toutes les classes [… ] Choron avait bien compris que sa mission n’était pas de faire des éducations individuelles de chanteurs: il lassait ce soin aux professeurs du Conservatoirs; pour lui, ce qu’il voulait, ce qu’il était utile qu’il fit, c’était d’introduire en France l’enseignement des masses vocales tel qu’il existe en Allemagne, enseignement sans lequel il n’y a pas d’espoir de rendre les grandes compositions selon la pensée qui a dirigé leurs auteurs. (François-Joseph Fétis, Biographie universelle des musiciens et bibliogrphie générale de la musique, Bruxelles, Meline, Cans et Cie, 1837, 3, 136-137). Una società corale fu quella dei Céciliens di Charles Sellier dal 1831, ma molte furono le iniziative corali all’epoca dette Orphéonistes. In questa ottica è da collocare anche la École de musique classiqueet religieuse del L. Niedermayer del 1853, benché con un accento più marcatamente dedicato alla musica liturgica e religiosa.
[5] Per quel che riguarda la musica sacra, è celebre l’articolo vibrante di Listz al motto di “Popolo e Dio” comparso nella “Revue et Gazette musicale de Paris” il 30 agosto 1835 in cui scrive “La musica deve riconoscere il popolo e Dio come sue fonti di vita, deve muoversi dall’uno all’altro, nobilitare l’uomo, consolarlo, purificarlo e lodare e magnificare la divinità. Per ottenere ciò è inevitabile la creazione di una nuova musica”; in F. Listz, “Un continuo prograsso” Scritti sulla musica, Milano, Ricordi Unicopli 1987, 435-436.
[6]Sept Chant religieux-Musique de G. Mayerbeer, par Fétis père, “Revue et gazette musical de Paris”, 2, nr.10, 5 marzo 1843.
[7] La distonia fra produzione per la liturgia e produzione per sé stessa, (“art pour l’art”) diventò quasi la norma negli autori che si occuparono di entrambi i genere, da Franck a Pizzetti, da Bruckner a Perosi; le soluzioni sono state o un semplicismo funzionale o un debordare dai limiti della liturgia con personalismo ritenuto eccessivo dai liturgisti o legittimo dai musicisti. Se presso alcuni autori l’equilibrio può sommare la visuale critica, in Fauré o in Poluenc, per esempio, per la vicinanza poetica fra le diverse produzioni, è altrettanto evidente la differenza di statuti fra la musica laica e quella liturgica in Listz per esempio, o, del pari, la non accessibilità alla liturgia della produzione religiosa di Schumann, Verdi o di Stravinskij e via dicendo, l’uno e l’altro poli di una scissione funzionale/ideologica. Nella ricchissima pubblicistica di autori minori il divario linguistico fra musica liturgica e solco della grande musica è affrontabile solo scindendo i piani critici secondo categorie differenti come per esempio musica funzionale/musica assoluta; musica segnica/musica autorefente. La difficoltà moderna di ricomporre i piani deriva dalla necessità di direzionarsi al popolo dei fedeli e nello stesso tempo cercare una realizzazione compositiva di sé nel corpo di un divenire della musica che sul versante popolare è decisamente laicizzata e sul versante colto è arenata in secche personalistiche incomprensibili.
[8] Per “movimento liturgico” è da intendersi il dibattito interno al clero francese che auspicava il ritorno alla liturgia romana delle diocesi francesi dopo un lungo periodo di anarchia liturgica. I termini della questione, tanto riguardo al periodo di molteplicità liturgica antecedente che al periodo di progressivo ritorno al quadro normativo romano sono ben riassunti in M. L’Abbé Jouve: Du mouvement liturgique en France durant le XIX siècle, Paris, Bleriot 1860. Le sollecitazioni a tale evoluzione sono da far risalire a Chateaubrian, De Maistre, Bonald, e altri, fino a dom Guéranger, nel quale “cette réaction liturgique se resume”(p. 8). La ricostruzione fatta dal Jouve è relativa all’adesione progressiva delle diocesi francesi al rito romano, nell’ottica di “revenir définitevement à cette communion, dit saint Pie V, qui consiste à offrir au même Dieu des prières et des louanges en une seule etmême forme”. Solo in un secondo tempo il movimento liturgico fu un movimento di clero e fedeli che sollecitava uno spirito di rinnovamento e di più consapevole partecipazione dei fedeli all’interno dei riti e delle associazioni cattoliche.
[9] Félicité Robert de Lamennais, Essai sur l’indifférence en matière de Religion, Vol.1, Paris, Tournachon-Molin et Sequin 1817, 346, 270, 307, 343, 349, 355, 472, 435.
[10] Charles Forbes comte de Montalembert, Du vandalisme et du Catholicisme dans l’art, Paris, Debécourt 1839, 66-67. Giornalista e deputato, il Montalembert propugnava l’alleanza fra religione cattolica e democrazia e fu considerato come un capo del partito cattolico.
[11] Esprit Gustave Jouve (1805-1872), fu archeologo, musicologo e compositore; ordinato prete, ebbe diversi incarichi fino ad essere nominato canonico nella cattedrale di Valence; scrisse libri e articoli riguardanti architettura, pittura e musica di solida erudizione.
[12]Dictionnaire d’esthétique chrétienne, ou: Théorie du beau dans l’art chrétien, Esprit Gustave Jouve, M. André, Ch. F. (compte de) Montalembert, compte E. Kératry, Paris, J. P. Migne 1856.
[20]L’Italie considerée sous le rapport musical, «Gazette musical de Paris», 2ème année n. 3, 18 gennaio 1835.
[21] Anton Friedrich Justus Thibaut, Ueber Reinheit der Tonkunst, Heidelberg, J. C. B. Mohr 1825, p.10-11. Nel presente articolo si seguirà l’evolversi delle idee nell’ambito francese/belga, ma il fenomeno fu assai vigoroso nello stesso periodo in Germania con la nascita del Cecilianesimo; l’Italia, nazione nella quale imperava il melodramma, vi arrivò nella seconda metà dell’Ottocento, benché non mancassero segnali precedenti.
[22] François-Joseph Fétis (1784-1871) fu musicologo, compositore e docente. Figlio di un organista, studiò al conservatorio di Parigi dove dal 1821 insegnò contrappunto e fuga. Nel 1826 fondò la Revue musicale, una rivista di musicologia, unica per il suo tempo. Nel 1833 divenne direttore del Conservatorio di Bruxelles, nomina che conservò fino alla sua morte. Scrisse la monumentale Biographie universelle des musiciens et bibliographie générale de la musique in 8 volumi, vera miniera di notizie storiche e aneddoti.
[23] François-Joseph Fétis, Biographie universelle des musiciens et bibliographiegénéral de la musique, Bruxelles, Leroux 1835, vol. I, CCXXI
[24] Anton Friedrich Justus Thibaut, Ueber Reinheit der Tonkunst, 18.
[26] Joseph d’Ortigue (1802-1866) fu musicologo, critico musicale, storico della musica; concentrò le sue ricerche sulla musica medievale e quasi esclusivamente sulla musica sacra, giungendo a pubblicare nel 1853 il Dictionnaire de plain-chant. Fu tra i primi a lavorare alla riabilitazione del canto gregoriano, ciò che gli permise di far parte nel 1856 della “Commission du chant ecclésiastique”. Fondò con Niedermayer “La Maîtrise”, rivista che non poco contribuì alla causa della musica sacra.
[27] Joseph d’Ortigue, Dictionnaire liturgique, historique et théorique de Plain – Chant et de musique d’Eglise., Paris, J. -P. Migne 1853, 1213-1217.
[28] In Dictionnaire d’esthétique chrétienne, 337-338.
[33] Théodore Nizard, Études surt la restauration du chant grégorien, Rennes, Ed. Vatar 1856,18. Théodore Nizard, pseudonimo di Abbé Théodule-Eléazar-Xavier Normand (1812-1888), belga, fu organista e scrittore, nel 1842 fu secondo direttore di canto in S. Germain des Près a Parigi; fra le sue opere si annovera la prima trascrizione dell’Antifonario di Montpellier scoperto nel 1847 da Danjou.
[34]Dictionnaire d’esthétiquechrétienne, 599, 401. E’ interessante notare come il corpo dell’articolo sia un riassunto di storia della musica sacra a partire dal XIII secolo fino alla metà del XVIIII secolo, quando fu “pleinement consommée la scission entre la musique et le Plein-chant”, in netta contrapposizione con l’arte profana: “[…] nous acclerons une éclatante preuve de plus de la merveilleuse influence du génie chrétien dans les arts et du germe inépuisable des beautés qu’il renferme en particulier pour la musique”.
[40] François-Joseph Fétis, Résumé philosophique de l’histoire de la musique, Paris, Fournier 1835, LIII.
[41] Pierre-Louis Parisis, Instruction pastorale de monsigneur l’Evêque de Langres sur le chant de l’Eglise, Bruxelles, De Mortier 1846.
[42]Pierre-Louis Parisis, Instruction, 61. Si veda anche il capitolo I criteri di restaurazione, nota 10.
[43] Juste-Adrien Lenoir de La Fage, Cours complet de Plain-Chant, Paris, Gaume 1855, 143-144. Il La Fage (Paris 1805- Charenton1862) fu compositore soprattutto di musica sacra e musicologo, collaboratore di Choron, di cui fu allievo, e autore di numeriosi trattati divulgativi.
[44] Juste-Adrien Lenoir de La Fage, Cours complet, 161.
[45] Théodore Nizard, Etudes sur la restauration du chant grégorien au XIXe siècle, Rennes, J. M. Vatar 1856, 536, 537, 122-123.
[46] Pierre Combe, Histoire de la restauration du chant grégorien d’aprés desdocumentsinédits, Abbaye de Solesmes, 1969, 20; tale affermazione è riportata al 1859.
[47] Questo tipo di esecuzione fu poi adottato dall’intera Chiesa con il Motu proprio del 1903, probabilmente perché era quella che poteva realizzare una fusione assembleare, perdurando l’idea del canto gregoriano come canto del popolo dei fedeli. Anche questa posizione si è rivelata problematica nella lunga prospettiva; del resto, molte delle tematiche affrontate fin dai primordi della restaurazione gregoriana restano tanto dibattute quanto insolute al giorno d’oggi.
[50] Félix-jacques-Alfred Clément, Rapport sur l’état de la musique religieuse en France, Paris, Didron, 1849; il passo è citato in Felice Rainoldi, Sentieridella musica sacra. Dall’Ottocento al Concilio Vaticano II, Roma, C.L.V: – Edizioni Liturgiche 1996. 481-482 (Bibliotheca ‘Ephemerides Liturgicae’ 87 = Studi di Liturgia 30)
[51] Parisis Instruction, 65: “Ogni strumento che accompagna deve avere un’intensità molto inferiore a quella del canto che è accompagnato”. E poco oltre: “la musica d’organo, che deve essere esclusivamente religiosa, cioè conforme al sentimento e all’espressione della preghiera, deve avvicinarsi il più possibile al canto della Chiesa”.
[52] Louis Abraham de Niedermeyer (1802-1861) studiò pianoforte e composizione dapprima a Vienna, poi a Roma con Vincenzo Fioravanti e a Napoli con Nicola Antonio Zingarelli. Da giovane riuscì a far rappresentare, con l’aiuto del suo amico Gioacchino Rossini, al Théâtre des Italiens e ad altri teatri di Parigi alcune sue opere, tra cui le più importanti “Stradella” (1837) e “Marie Stuart” (1844). Abbandonato il teatro, si dedicò alla composizione di musica sacra (mottetti e messe), dirigendo una scuola di musica a cui diede il proprio nome.
[54] Hector Berlioz, À travers chants /Etudes musicales, adorations boutades et critiques, Paris, Michel Lévy Frères, 1871, 262.
[55] R. P. Louis Girod, De la musique religieuse, Namur, F. J. Douxfils 1855.
[56] R. P. Louis Girod, De la musique religieuse, 10-12; 53-54; 36, 129. In M. Félix Clément, Des diverses riformes du Chant Grégorien, Paris, Adrien Le Clere et Cie 1860, 41-47, si trova un’interessante discussione dell’autore in opposizione alle idee del Girod.
[57] O. Commettant, Musique et Musiciens, Paris, Pagnerre 1862, in Hameline, Le son de l’histoire, 10.
[58] Mathieu de Montier, Louis Lambillotte et ses frères, Paris, Régis-Ruffet 1871, 66.
[59]Cérimonial du diocèse/ imprimé par ordre de Mrg l’Evêque d’Autun, Autun, Dejussieu 1845, in Hameline, Le son de l’histoire, 35.
[78] Le notizie sono ricavate da: Mathieu de Montier, Louis Lambillotte et sès frères, Paris, Régis-Ruffet & C.ie, 1871; questa biografia risulta la più estesa e precisa, benché non priva di risvolti agiografici, rispetto a quelle fornite dalla Nouvelle biographie générale: depuis les temps les plus reculés jusqu’à nos jours,. Firmin-Didot frères, sous la direction de M. le Dr. Hoefer, 1859, tomo 29, coll.166-167 (redatta da Dieudionne Denne-Baron) e dal J. Fétis nella sua Biographie Universelle desmusiciens, Didot, Paris 18632, p. 178-180; mentre la prima però è rivolta alla correzione dei pregiudizi nei confronti del Lambillotte e all’esaltazione dei suoi meriti, il Fétis non perde occasione di sminuire e mettere in cattiva luce il gesuita e riporta le notizie, tratte probabilmente dal Didot, in chiave negativa, certamente in risposta ai dubbi espressi dal Lambillotte (ma anche da altri), sulla sua erudizione (valga per tutte Quelque mot sur la Restauration du Chant Liturgique, p.14): lo accusa di aver rimediato troppo tardi alla sua formazione letteraria, di aver scritto musica volgare, “plus convenable pour les guinguettes que pour le service divin”, per di più scritta male, anche se di successo nelle provincie, dove il gusto “est en général assez mauvais”. Rivendicando a sé il merito di aver sollevato la questione delle alterazioni subite dal canto gregoriano e dalla necessità di fare una restaurazione uniforme, accusa gli altri di aver scritto di fretta in un campo dove occorreva calma e riflessione: sono così apparse le edizioni di Malines, Dijon, Reims, Cambrai, Rennes e Digne “tous dissemblables”; il Lambillotte, senza averne i requisiti, pensò di essere chiamato a operare la riforma del canto gregoriano e solo a partire dal 1842 iniziò i suoi studi; dopo aver riportato le critiche alla pubblicazione dell’Antiphonaire de S. Grégoire dimostrando che non è copia di un presunto originale, non manca di accusare il Lambillotte di “peu d’intelligence de la matière” e infine, di aver alterato dappertutto il canto gregoriano e di affermare a parole di consultare sempre l’originale per poi cambiare ogni volta ciò che egli trovava. Diverso è il tenore della biografia del Didot che è propensa a riconoscere al Lambillotte“l’immense succès des ses oeuvres”, a vedere, anche se vi sono musiche di marca leggera e di stile negligente, una felicità di ispirazione, di aver scritto melodie semplici, graziose e naturali, musica “chantante”, di esecuzione facile, che ha trovato successo nelle comunità religiose e nei pensionati; l’opera capitale resta tuttavia “sans contredit” la “restauration du chant grégorien”.
[79] Si trattava del Cantatorium, manoscritto 359 della Stiftbibliothek di Sankt-Gallen, contenente per intero solo i canti solistici della messa (Graduali, Tratti, Alleluia), e indicante gli altri (Introiti, Offertori, Communi) per mezzo del loro incipit.
[80] Come si può notare, il Lambillotte ha anticipato il metodo e il procedimento del lavoro che avrebbero svolto dopo di lui i monaci solesmensi; tanto l’applicazione del principio della ricerca dei codici più antichi, che della collazione fra le versioni più autorevoli e relativa scelta della lezione concordante, del procedimento filologico in generale e della comprensione del significato dei neumi, possono a buon titolo essere ascritti al Lambillotte che per primo ha concretamente dimostrato la via da seguire; la stessa pubblicazione in fac.simile del Cantatorium anticipò la Paléographie Musicale. Il Pierre Combe, nella sua Histoire de la Réstauration (p. 18), nel tracciare la storia della restaurazione gregoriana, non riserva che poche parole al Lambillotte e si guarda bene dal riconoscere la validità dell’anticipazione, tutto preso com’è a privilegiare il mito di una rifondazione dovuta interamente a Solesmes; il Combe deve ricorrere a “hésitations” di dom Guéranger per spiegare il dato cronologico di posteriorità e gli errori di impostazione prima del 1860 (Pierre Combe, Histoire, 24-26; si veda il nostro capitolo I criteri di restaurazione); è evidente invece che la via era già stata indicata e la differenza fra Solesmes e il lavoro dei precursori si dovette, oltre a energie maggiori, alla decisa scelta scientifica e alla assenza di scrupoli pastorali.
[81] In Antiphonaire de Saint Grégoire; fac-simile du manuscript de Saint-Gall, accompagné d’une notice historique, par Louis Lambillotte, Paris, V. Poussielgue-Rusand, 1851.
[82] Louis Lambillotte, Oeuvre posthume, édité par le soin du P. J. Dufour, Paris, Adrien Le Clere et Cie, 1855.
[83] Lambillotte, Clef des mélodies grégoriennesdans les antiques systèmes de notation et de l’Unité dans les chants liturgiques, in Antifonaire de St. Grégoire, 42.
[84] Lambillotte, Clef des mélodies grégoriennes, 3-9.
[85] E quanto afferma dom Guéranger nelle Institutions, vol. I, 306
[86] Lambillotte, Clef des mélodies grégoriennes, 15.
[87] Louis Lambillotte, Esthétique, théorie et pratique du chant grégorien, Oeuvre porthume, édité par le soin de P. J. Dufour, Paris, Adrien Le Clere 1855, 5.
[91]Graduale romanum juxta breviarium Pij V Pontificis Maximi authoritate editum. Cujus modulatio concinni disposita; in usum et gratiam monalium ordinis Sancti Augustini. Opera et studioGuillelmi Gabrieli Nivers christianissimi regis capellae musices nec non Sancti Sulpicii parisiensis organistae, Paris, chez l’auteur, 1658.
[92] Félix Clement (Des diverses réformes du Chant grégorien, Paris, Adrien Le Clere, 1860) elenca quelle di Reims-Cambrai (1851, edito da M. Lecoffre, basato quasi esclusivamente sul codice H 159 di Montpellier) , Digne (1850), Rennes (1853), Malines (1848) , Dijon (1815).
[96] Lambillotte, Antihphonaire de S. Grégoire, 18.
[97] Un elenco dei codici consultati si trova in Lambillotte, Esthetique, 32-63.
[98] Il Fétis in realtà aveva descritto il metodo di indagine e annunciato un lavoro, senza arrivare a pubblicazioni di merito. Nel suo Méthode élémentaire de Plain chant afferma di “avere consultato un gran numero di manoscritti e di edizioni antiche del Graduale e dell’antifonario e di preparare nuove versioni di questi libri che saranno più corrette di tutte quelle date finora” (p. 10); pronta nel 1845, fu stroncata sul nascere da dom Guéranger sulla «Revue de musique religieuse, populaire et classique», I, 1845, p. 103-106 perché tale versione proponeva una sola delle lezioni reperite nei manoscritti, restando quindi nel campo di scelte soggettive per quanto basate su un ampio ventaglio di consultazioni; in una lettera del 12 dicembre 1847 dagli accesi toni polemici sempre sulla «Revue de la musique religieuse classique et populaire» (Année III, p.380), il Th. Nizard dichiarò che il metodo di ricostruzione del Fétis era “une véritable calamité liturgique” e di avere messo in guardia il vescovo di Cambrai dal basarsi sui suoi studi preparatori per l’edizione diocesana di canto gregoriano. Più tardi il Fétis stesso rinunciò al progetto: nella propria biografia (Biographie Universelle, 18622, tomo 3, p. 239) dice di aver abbandonato e ripreso “vingt fois en quarante ans” la pubblicazione di un Graduale propriun de tempoire et de sanctis juxta ritum sacrosantae romanae ecclesiae, ma di rinunciarvi perché richiamerebbe su di sé “l’animadversion de tous les partis […] sans aucun chance se succès”.
[99] Félix Danjou, Découverte d’un exemplaire complet et authentique de l’Antiphonaire grégorien, “Revue de la musique religieuse populaire et classique”, III, 1847, 385-397; la scoperta del H 159 fece scalpore e sull’onda dell’entusiasmo – il Danjou proclamava solennemente che “la restaurazione del canto romano può ormai effettuarsi senza incertezza, senza difficoltà e quasi senza alcun intervento della scienza e della critica, con la semplice trascrizione di questo prezioso e unico manoscritto”- il codice fu utilizzato per edizioni di canto gregoriano; i paleografi più avveduti (già il Nizard nel numero successivo della rivista) ne dimostrarono ben presto però la tardività, ciò che causò, insieme agli attacchi senza appello dei musicologi, un disappunto tale nel Danjou e in coloro che avventatamente si erano basati sulle sue scoperte impegnando somme di denaro, da causarne il ritirò dalla scena musicale nel 1849; il Danjou andò ad occuparsi prima di politica a Montpellier, sua città di residenza, e poi di telegrafia a Parigi. Un volume della «Revue», la seconda parte dell’annata IV del 1848, comparve ancora nel 1854, poi la rivista non uscì più, anche a causa, come il Danjou stesso scrive, dell’indifferenza in cui si era trovata la rivista fin dall’inizio.
[100] Il Combe riconosce al Lambillotte di aver descritto con una certa esattezza i neumi, ma gli rimprovera di realizzare un canto “battu et mesuré”: è noto che i solesmensi sostennero e praticarono, su sollecitazione di dom Guéranger, un canto gregoriano eseguito a note uguali scorrevoli e non in modo pesante a note lente come in precedenza; è da segnalare come tale intento fu anticipato teoricamente dal Nizard (si veda il nostro capitolo Il dibattito sulla musica nel culto) e che tale interpretazione in realtà non aveva nessun solido fondamento storico quanto le teorie ritmiche di Lambillotte o del Coussemaker e in fin dei conti realizzava ancora una scelta ritmicizzante benché priva di accenti.
[101] L’esposizione è ricavata da P. J. Dufour, Quelques mots sur la restauration duChant Liturgique, Paris, Adrien Le Clere 1855; tale testo, in tutto e per tutto opera del Lambillotte, fu pubblicato qualche giorno dopo la morte di quest’ultimo.
[103] Nell’elenco bibliografico di De Monthier, Louis Lambillotte et ses frères, 220, figura: “Graduel et Vespéral, en double notation, ancien et moderne, Paris, A. Leclerc, 1855-1856”. Purtroppo non si è potuto risalire a questo “Graduel monumental”, che darebbe un ulteriore conferma del valore delle intuizioni del Lambillotte prima di Solesmes.
[104] In un’appassionata difesa, a seguito delle polemiche che seguirono la pubblicazione del Graduale e dell’Antifonario del Lambillotte, il Clément (Des diverses réformes du chant grégorien, 22) definisce il lavoro “nello stesso tempo un’opera d’arte e un’opera liturgica” e altrove (p. 10) “Nulla manca all’edizione del P. Lambillotte. Essa ha l’autorità di una Compagnia devota alla Santa Sede e agli interessi della propagazione della dottrina cattolica nel mondo intero”.
Un giudizio disincantato a distanza di tempo è offerto da Pierre Guillot, Les Jésuites et la musique: le Collège de la Trinité à Lyon 1565-1762, Liège, Mardaga 1991, 90: secondo cui il Lambillotte ha operato sbagliando su due fronti: uno è quello dell’aver pensato di rompere con abitudini acquisite da generazioni, l’altro l’aver ha reso l’approccio al canto più difficile con le sue teorie sul tritono, sull’ornamentazione, sul ritmo e la misura. Riiconosce però che “la voie royale était tracée” per la restaurazione successiva.
Il limite dell’edizione del Lambillotte è proprio l’aver effettuato dei tagli alle melodie e aver imposto un ritmo sulla base delle indicazioni antiche, sviato, per così dire, dalla preoccupazone allora comune di rendere accessibile il canto stesso al popolo.
Dopo discussioni che avrebbero percorso tutto l’Ottocento e oltre, avrebbe prevalso l’aderenza alla verità (almeno quella possibile all’epoca) delle edizioni solesmensi. Tentativi anche recenti di andare incontro al canto assembleare pratico ( col Kyriale simplex, 1967) non hanno avuto successo, essendo l’aspetto musicale del canto gregoriano tutto avulso dall’evoluzione dell’orecchio e della cultura musicale moderna e non potendosi saldare i due piani con decisioni autoritative.
[106] Il Lambillotte, sulla scorta di antichi trattatisti come Marchetto da Padova, Guido D’Arezzo, o di antichi manoscritti, tardivi naturalmente, elenca quattro regole per individuare le note “attrattive” da alterare in cadenza (Quelques mots, 19-23): I: non è mai permesso di scendere dal si al fa o di salire dal fa al si, sia per movimento diretto o indiretto a causa della durezza di questo intervallo. II: è permesso far sentire si e fa in un tratto melodico quando vi sono note intermediarie che salvano la durezza del tritono, per es. ut fra si e fa. III: lo stesso vale se a si e fa è posposta una nota che salva la durezza,per esempio ut o mi. IV: l’intervallo di tritono è permesso quando il movimento melodico termina su altre corde come ut, re, mi.
[108] Per esempio, alla lettera c (celeriter) corrisponderebbero note in forma di losanga e legature o note brevi insieme, alla lettera t (tene/tenere/tenete) note quadrate a coda.
[110] Lambillotte, Esthetique, 289: “Le peuple ne se contentait pas de chanter les Kyrie, les Gloria, les Credo, mais encore il prenait part au chant des Introits, des Répons-Graduels, des Offertoires, etc., etc.”
[113] Félix Danjou (1812-1866) fu organista, musicologo e compositore; come organista fu titolare a Notre-Dame-des-Blancs-Manteaux dal 1831 al 1834, a S. Eustache dal 1834 al 1844 e a Notre-Dame dal 1841 al 1847. Diede un notevole contributo al miglioramento della qualità della musica sacra e al ritorno alle fonti storiche del canto gregoriano con la scoperta nel 1847 del codice H159 della facoltà di Medicina di Montpellier che suscitò all’epoca grande clamore.
[115] “Ora, se è provato che questo canto non deve essere eseguito da qualche voce isolata, ma dalla voce dell’assemblea dei fedeli nel tempio; se è vero che si è lasciato snaturare questo canto e la sua esecuzione; se si è constatato che non produce oggi l’immenso effetto che produceva una volta; infine se è dimostrato che la gloria di Dio, lo splendore del suo culto, e per conseguenza, la salvezza delle anime sono in causa in una tale questione, quale è il Sacerdote, il cristiano, che rimarrà indifferente alla restaurazione del canto ecclesiastico?” (Danjou, De l’état cit., 18-19).
[116] F. Danjou, De l’état, 9-23; si veda anche l’articolo De l’état actuel du chant dans leséglisesde France et des moyens d’en améliorer l’exécution, “Revue de la musique religieuse, populaire et classique”, 1, 1845, 50-61, 115-126, 217-226.
[118] Notizie storiche di prima mano sul coevo diffondersi dell’harmonium in Félix Danjou, Ce qu’il faut penser et ce qu’il faut faire des orgues expressives et de leur derivés, les Haermonium, Orchestrion, Melodium, Aérophon, Seraphina,, etc., in “Revue de la musique religieuse, populaire et classique” 1, 1845, 321-327. Il brevetto dell’Harmonium o “Orgue espressif” fu fatto nel 1842 da Alexandre-François Debain; lo strumento ebbe un grande ruolo nell’accompagnamento ma anche nella diffusione di una musica di genere di alta qualità, quasi con proprio statuto di “musica liturgica”: ad esso vari editori hanno provveduto una ricca letteratura con brani di autori quali Franck, Saint-Saens, Dubois e molti altri fino a tempi recenti.
[119] F. Danjou: De l’état , 57-62. L’adesione di Franck alle tesi del Danjou risulta chiara dai suoi Avertissements agli accompagnamenti, come dalla sua produzione musicale; che però fosse in qualche modo temperata risulta dal fatto che la sua produzione maggiore per organo non fu liturgica in nessun caso e che nel suo accompagnamento, per esempio, dichiari di non voler aderire ad “eccessivo arcaismo”. Per esemplificare tale distinzione, possiamo prendere come modello una lettera del Lambillotte al Danjou (“Revue de la musique religieuse, populaire et classique” I, 1845, 252-253), in cui il gesuita prende le distanze dalle posizioni intransigenti dell’organista; nell’accusarlo di ritenere come unica musica valida il canto gregoriano, il Lambillotte sostiene che la musica è “arte di sentimento”e non di speculazione, e come il canto gregoriano può essere efficace oppure no a seconda di chi ascolta, così vi sono opere serie di Beethoven o teatrali di Lefébure-Wély che possono essere efficaci, ma non per questo la musica deve essere priva di drammaticità, espressività, passione nel cantare le lodi a Dio; nei tempi antichi sono stati composti drammi liturgici, e ciò che edifica il popolo dovrebbe essere accolto con favore, mentre dovrebbe essere rigettato ciò che dispiace o annoia il medesimo, al di là delle distinzioni preconcette.
La risposta di Danjou, estremamente faziosa e piccata (p. 253-256), nell’accusare il gesuita di “accecamento completo” e di professare teorie sensualiste e di sostituire il piacere, la moda e l’arbitrio alle leggi della chiesa, ai decreti e alle massime dei Santi, ribadisce che la musica non deve convenire ai sentimenti troppo esagerati, alle passioni ardenti come avviene nei teatri, ma solamente essere espressiva come la grande musica della chiesa, operando per restaurare con zelo le grandi opere della fede cattolica. La posizione di Franck, benché non dichiarata in scritti con risvolti di estetica, sembra mantenersi sul versante del Lambillotte, perché certamente riesce nell’intento di creare musica romantica e sentimentale senza cadere nel teatrale. Nella stessa risposta il Danjou non perde l’occasione di accusare di trivialità le opere vocali sacre del Lambillotte -composte prima degli studi gregoriani-, assai diffuse e popolari all’epoca (qualche melodia è in uso ancora oggi), ma certamente legate allo stile operistico in voga e dalle quali lo stesso Lambillotte prese le distanze: “L. Lambillotte espresse pubblicamente il suo rammarico a Vaugirard, sei mesi prima di morire, per aver dato alle stampe delle elucubrazioni senza forma, e di volerle correggere tutte, una volta terminati i suoi lavori sul canto gregoriano, […] allo scopo di fermare le critiche, che lui era il primo a riconoscere giuste. Il programma era già tracciato: togliere tutto quello che non aveva né sentimento né carattere religioso, cioè i lustrini e le cianfrusaglie vocali all’italiana […]” (M. De Monthier, Louis Lambillotte et ses frères, 76).
[120] L’elenco fornito dal Danjou rivela chiaramente il proposito di “normare” il musicista non a partire da interiorità acquisite, ma da imitazioni prefissate: egli inizia con Rinck, Neukom, Boely, Fétis, Benoit, Dietsch; seguono Bach, Haydn, particolarmente raccomandato e quindi Haendel, Clementi, Mozart, Beethoven, Hummel, Weber e Bertini. Per trattare abilmente il canto gregoriano egli pone come modelli Palestrina, Bach e Padre Martini; un’ultima annotazione riguarda gli accompagnamenti al canto gregoriano: “Tutte le pubblicazioni recenti di canto gregoriano con accompagnamento d’organo sono detestabili”. (Danjou, De l’état, 62).
[122] Puntuali notizie in Joel-Marie Fauquet, C. Franck, Paris, Fayard 1999, 282-288; cfr. anche Rollin Smith, Playing the Organ Works of C. Franck, Stuyesand NY, Pendragon Press 1997, 16-19.
[123] Proprio Notre-Dame-de-Lorette era stato uno dei primi luoghi in cui si era cominciato ad accompagnare il canto gregoriano: gli inizi di tale pratica sono fatti risalire, in una comunicazione non firmata alla rivista “Revue de la musique religieuse, populaire et classique” in risposta a un precedente articolo dello stesso Danjou (De l’Accompagnement du chant grégorienne, in “Revue de la musique religieuse, populaire et classique” 3, 1847, 405-412: 406), al novembre del 1829, quando Adrien De La Fage, maestro di cappella compositore e musicologo, allievo fra gli altri di Choron, s’intese con M. Oliver, poi diventato vescovo di Evreux, per far accompagnare dall’organo il canto gregoriano nel giorno della Dedicazione nel coro di S. Etienne du Mont. Fu quindi la volta della chiesa delle Missions-Etrangères dove diventò maestro di cappella lo stesso De La Fage dal luglio del 1831; nel 1835 la riforma fu adottata a Notre-Dame-de-Lorette, all’apertura della nuova chiesa; quindi a S. Eustache, Saint Paul-Saint Louis, Saint Vincent de Paul, Saint Merry, e in seguito parecchie chiese e parrocchie di provincia (De l’Accompagnement du chant grégorienne, in “Revue de la Musique religieuse, classique et populaire” 4, 1848, 5-18: 5-6). Il D’Ortigue riporta gli avvenimenti riferiti proprio dal De La Fage alla voce Orgue d’Accompagnement (Dictionnaire, 1142-1144): curiosamente l’opinione del D’Ortigue riguardo all’accompagnamento è, come si vedrà più avanti, molto severa, arrivando a sostenere che l’uso di accompagnare tutti i canti, cioè “musique et plain-chant” ha dato l’ultimo colpo al canto ecclesiastico; riporta quindi le parole del La Fage là dove sostiene, altrettanto severamente, che il canto gregoriano non sopporta alcun accompagnamento e che il movimento continuamente irregolare delle figurazioni, in mancanza di una battuta fissa, causa un disordine armonico e ritmico completo e dunque il canto gregoriano deve essere cantato solo dalle voci senza alcun accompagnamento; il La Fage ammetterà di aver pubblicato molti accompagnamenti e di aver iniziato lui l’uso dell’accompagnamento del canto all’organo corale nel 1829, uso che si è propagato subito; quindi si giustifica dicendo che i primi furono dovuti all’universale ignoranza in materia da parte degli organisti e dei cantori, il secondo alla necessità di arrivare ad abolire l’abominevole e vergognoso uso solamente francese del serpentone, strumento rozzo così contrario alle voci, al gusto e al buon senso. Lo scopo è stato raggiunto: “l’orgue, quand on le voudra, pouvant tout s’abstenir”. Il D’Ortigue in seguito mutò idea, addirittura firmando con il Niedermayer un libro di accompagnamenti al canto gregoriano; si veda il capitolo Il contesto culturale specifico.
[124]Chant grégorien/restauré/par le R.P. Lambillotte, de la Compagnie de JasusAccompagnements d’orgue/par C. Franck (ainé) Maitre de Chapelle de la Paroisse Sainte-Clotilde, Paris, Libraire Adrien Le Clere 1857, III.
[127] La produzione di oratori data dal 1843-46 con Ruth, egloga biblica in tre parti per solo, coro e orchestra e avrebbe compreso opere come Les Béatitudes del 1869-79, Rédemption per soprano, coro femminile, coro misto, recitante e orchestra (1871), oltre ad altre cantate minori; tali opere sono da assimilare in tutto e per tutto con i melodrammi dell’epoca.
[128] Curiosa la parentesi del Nizard (Etudes, 163): “En supposant un organiste-accompagnateur qui ait du génie (du génie catholique bien-entendu) […] il faut être sobre en toutes choses.”
[129] Paris, Librairie de l’Art Catholique 1912. Probabilmente, in un’epoca in cui era viva la discussione sul modo di eseguire ritmicamente il canto gregoriano, una proposta di accompagnamento di un canto gregoriano misurato da parte di una autore che era considerato un padre della musica religiosa (basta ricordare l’esaltazione che ne fa Vincent D’Indy in César Franck, Paris, Alcan 1906), poteva avere ancora ragioni per una riedizione.
[130] Quindi non raddoppiando il soprano: “[…] rimettendo al loro posto strumenti che non sono fatti per suonare all’unisono con il canto, come si usa in modo deplorevole dappertutto” (Accompagnements I, III.
[131] Franck, Accompagnements, Avertissement, I, IV.
[132] Franck Accompagnement, Avertissement, I, IV. E’ da osservare che le melodie usate da Franck sono diverse sia ritmicamente che melodicamente da quelle usate nella pubblicazione Recueil de chants sacrées pour les saluts, Vepres, et messes de toutes l’Année, a l’usages des fidéles curate e pubblicate dal Lambillotte nel 1851; la derivazione dal lavoro del Lambillotte -che dunque ha maturato le sue convinzioni ritmiche posteriormente al 1851- è dichiarata nel sovratitolo stesso degli Accompagnements.
[133] F.rançois-Joseph Fétis, Méthode élémentaire de plain-chant à l’usage des seminaries, des chantres etorganistes, Paris, Veuve Canaux 1843, 32.
[136] Adrien de La Fage, Cours complet de Plain-Chant, Paris, Libraire de Gaume Frères, 1855, 447 e 467.
[137] “Revue de la musique religieuse, classique et populaire”, III, 1847, 405.
[138] Alexandre É. Choron – Adrien J. la Fage, Nouveau manuel complete de musique vocale et instrumental, Paris, De Fain 1838, citato in N. A. Janssen, Les vrais principes du Chant Grégorien, Malines, P. J. Hanicq 1845, 210.
[140] A. De La Fage, Cours complet de plain chant, Paris, De Gaume Fréres 1856, 628.; le motivazioni addotte sono ancora oggi oggetto di dibattito: in origine non era previsto alcun accompagnamento; la sua natura è “antipathique” al’armonia moderna; se si attua una accompagnamento alla maniera antica suona “barbare”, se si fa alla moderna “fait disparate”; se si accompagna a tre voci il gregoriano -senza raddoppio della melodia-risulta debole, se si accompagna a 4 -con raddoppio- risulta impreciso; l’accompagnamento può costituire imbarazzo ai cantori; con l’accompagnamento il gregoriano perde inevitabilmente l’effetto dei ritardandi, accelerazioni, riposi, “en somme de sa liberté”, infine “jamais, le plain-chant, par sa constitution, ses formes, ses allures, ne saurait produire plus d’effett qu’en se montrant seul”.
[142] A. De la Fage citato in Dictionnaire d’esthetique chrétienne, 339; interessanti i corollari con le “suddivisioni imbarazzanti” per cui i primi si dividono fra coloro che parteggiano per un’armonia anteriore al XII secolo e il loro unico scopo è riprodurre i monumenti antichi, coloro che preferiscono un’armonia cosiddetta “gotica” in opposizione alla precedente chiamata “romana” databile a quella impiegata fra il XII e il XVI secolo; infine i seguaci dell’armonia moderna che usano le risorse comparse dopo Palestrina o da Monteverdi in poi.
[143] Avvocato presso la corte reale di Nancy, fu autore di diversi scritti riguardanti la musica sacra.
[144] Joseph Regnier, L’orgue, sa connaissance, son administration et son jeu, Nancy, Vagner 1850, 401-402.
[146] Fétis père, Du demi ton dans le plain-chant, “Revue de la musique religieuse, populaire et classique”, 1, 1845, 107, 112.
[147] N. A. Janssen, Les vrais principes du Chant Grégorien, 211-212.
[148] “Je ferai encore remarquer que je n’ai en vue de l’accompagnement de voix par l’orgue” (“Revue de la musique religieus, populaire et classique” 4, 1848, 10).
[149] “Revue del al musique religieuse, populaire et classique”, 4, 1848, 15. Da notare come il Danjou consigli il musicista di non alterare la tonalità ecclesiastica, perché in tal modo “ils trouveront dans cette recherche une foule de ressource et de combinations nouvelles ou plutot abandonées, et dont l’emploi serait des plus hereux effet dans l’accompagnement du chant ecclèsiastique”; viene prefigurata qui la produzione “gotica”della seconda metà dell’800, fra cui anche gli stessi atteggiamenti modali nell’opera di Franck, in particolare, per fare un esempio, nel tema principale del III Corale per organo. Nel versante vocale, il Lambillotte aveva pubblicato una Messe solennelle de style grégoriendu cinqieème mode nel 1855.
[150] I due articoli delle annate III e IV non ebbero seguito benché annunciassero altri contributi.
[151]D’Ortigue, Dictionnaire, 22-94. Fra l’altro vi è riportato in parte il contributo del Danjou già apparso nella Revue.
[152] In: «Musée des organistes célèbres», Paris, Schonenberger s.d. ma 1840, II, 4.
[154] Solo il IV modo (SI-si) “se prête moin à notre harmonie moderne”.
[155] Tale uso doveva essere improvvisato poiché nelle pubblicazioni a stampa di Nicolas Séjan (1745-1829) e Guillaume Lasceux (1740-1831), d’inizio Ottocento il canto fermo compare solo nel basso.
[157] La vicenda personale di Alexandre Pierre François Boëly (Versailles 1785 – Parigi, 1858). organista impegnato nell’esecuzione, diffusione, composizione di austera musica ispirata ai classici del passato, le sue dimissioni obbligate da organista titolare di Saint Germain l’Auxerrois nel 1851 per non avere il favore popolare, sono paradigmatiche nel contesto del dibattito sulla musica sacra del tempo. Le sue qualità, significative nell’ottica della riforma, sono ben riassunte dal Fétis: “Cette étude (de Bach, Haendel, Haydn, Mozart) a donné à son talent un caractére particulièr presque entièrement ignoré des nos jours et très différent de la manière des autres pianistes […] Sa musique est grave, en général correcte, profondément pensée, et l’on y trouve partout le sentiment conscienceux de l’artiste qui obéit à son istinct au lieu de suivre les formes à la mode.”(Biographie Universelle, Paris, Firmin Didot 18732, 474). Così pure il licenziamento nel 1863 di Georges Schmitt dopo quindici anni di servizio a Saint Sulpice per assumere Léfèbure-Wely a motivo di suonare in stile “tedesco” e di favorire la musica di Bach e Haendel è sintomatico delle tematiche e dei contrasti dei riformatori; per quest’ultimo si veda la ricostruzione della vicenda in Wolfgang Grandjean, Orgel und Oper. Georges Schmitt 1821-1900, Ein deutsch-französicher Musiker in Paris, Biographie und Werke, Hildesheim, Olms Verlag 2015, 152-155.
[158] Justin Heinrich Knecht Vollstaendige Orgelschule fur Anfänger und Geübtere, Lipsia, Breitkopf 1796, tradotta da Jean-Paul Martini, Ecole d’Orgue résumée d’après les ouvrages des plus célèbres organistes d’Allemagne, Paris, Imbault 1804.
[160] S. Stehlin, Tonarten des Choralgesanges nach alten Urfunden, in “Caecilia”, Wien 1842.
[161] Come si praticava, precisa il Nizard, “nella Germania cattolica, Belgio (paese di provenienza del Lambillotte e di Franck), Italia, nord della Francia, Lorena, Alsazia”(D’Ortigue, Dictionnaire, 88.)
[162] Adolphe Miné, L’Organiste accompagnateur, recueil de messes solennelles st des principales fêtes de l’année, d’après le rite parisienne, Paris,Ed. Pluoivier 1836.
[165] Segnaliamo anche il contributo di Dieudonne Duguet, Livre d’Orgue, contenant l’accompagnement du Plain Chant des principaux Offices de l’année, Liège, L. Muraille 1842, 18512; la recensione comparsa sulla Bibliographie catholique; revue critique des ouvrages de religion, vol. 14, 1854; dopo aver detto che il libro va incontro a un bisogno vivamente sentito a misura che l’impiego dell’organo accompagnatore andava diffondendosi anche nelle contrade (del Belgio), oltre che incontro ai giovani organisti che dopo aver approfondito l’armonia e il contrappunto si trovano tuttavia nell’impossibilità di accompagnare il canto gregoriano in modo degno, vi trova un’armonia buona e irreprensibile, piena di esattezza e chiarezza. Segue però l’edizione di Malines, che presenta differenze notevoli con le recenti edizioni francesi di Reims-Cambrai.
[167] L Niedermayer, J. D’Ortigue, Traité théorique et pratique de l’accompagnement du Plain-Chant, Paris, Heugel & Cie 1857, 11, 14-15.
[168] Nella prefazione al Traité dice che andava divulgando queste convinzioni con conferenze giornaliere “pendant plus d’un an”.
Bibliografia
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Instruction pastorale de monseigneur Parisis, êveque de Langres, sur le chant de l’Eglise, précédééde la question liturgiques par le même prélat, Bruxelles, De Mortier, 1846.
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Esthétique, théorie et pratique du chant grégorien, restauré d’après la doctrine des anciens et les sources primitives par le R. P. L. Lambillotte de la Compagnie de Jesus, Oeuvre posthume, édité par le soin du P. J. Dufour de la meme Compagnie, Paris, Adrien Le Clère et C.ie, 1855.
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Chant grégorien/restauré/par le R.P. L. Lambillotte, de la Compagnie de Jasus/Accompagnements d’orgue/par Ç. Franck (ainé) Maitre de Chapelle de la Paroisse Sainte-Clotilde. Première Livraison – Chants communs. Deuxième et troisième Livraison – Himnaire. Quatrième et Cinquième Livraison – Accompagnement d’orgue et chants a trois parties, Paris, Libraire Adrien Le Clère, 1857
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Dom Pierre Combe, Histoire de la restauration du chant grégorien d’après des documents inédits, Solesmes et l’Ėdition Vaticane, Abbaye Saint Pierre Solesmes, 1969.
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Felice Rainoldi, Sentieri della musica sacra. Dall’Ottocento al Concilio Vaticano II. Documentazione su ideologie e prassi, Roma C.L.V. – Edizioni liturgiche, 1996.
Rollin Smith, Playing the Organ Works of Ç.ésar Franck, The complete organ N. 1, NY, Pendragon Press, Stuyesand, 1997.
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