Presentazione

Nel  silenzio generale del mondo organistico italiano, così facile  ad osannare gli artisti  d’oltralpe e così poco incline a riconoscere il valore dei propri, ricordare  la figura di Ulisse Matthey sembra opera di ricercato localismo. Non è proprio così: più si entra dentro al cospicuo corpus compositivo di questo musicista superiore e più ci si convince che nel lasso di tempo fra le due guerre del XX secolo è stato certamente l’esponente maggiore e più significativo del mondo organistico italiano; non solo fu richiestissimo collaudatore e progettista di nuovi strumenti in tutta Italia ed acclamato concertista, ma fu l’unico a potersi confrontare, allora come ora, con organisti di livello europeo.
Di più: è probabilmente l’ultimo grande organista nel senso autentico del termine della storia organistica italiana, ossia organista nello stesso tempo compositore, improvvisatore, esecutore, organologo, docente. Erede di un mondo pianistico-organistico in cui non vigeva l’asservimento sterile alla partitura di altri, o l’incapacità conclamata di non avere un mondo estetico autonomo in cui muoversi tramite la composizione e  l’improvvisazione, in cui non vi era neppure l’esibizione vacua di uno storicismo facile  che lascia perlopiù estraneo il pubblico,  Matthey  incarnava la grande figura del concertista ottocentesco che emanava ricchezza musicale a tutto tondo; nei suoi programmi vi era la manifestazione di vero concertismo:  rapportabili al grande solista pianistico erano le sue esecuzioni a memoria di  brani significativamente impegnativi e spettacolari, di grande respiro erano le sue composizioni, iconiche  erano le sue trascrizioni da altri autori, vera e propria scelta di buon  gusto e di spolvero performativo,  appropriate  erano le sue improvvisazioni nella liturgia -stando alle testimonianze biografiche sapeva all’occorrenza  continuare una fuga bachiana-, costante era la sua volontà di misurarsi con la letteratura coeva europea, con i Ravel, i Debussy, i grandi russi. Come riferiscono alcune cronache, probabilmente non c’era paragone con altri esecutori organisti a lui contemporanei, non solo italiani, quanto a qualità esecutiva, non fosse altro perché, a differenza di altri, egli fu fra i primi ad eseguire musica del passato “secondo verità” ossia rispettando l’autore e la configurazione della musica, principio  che avrebbe avuto nei decenni successivi la declinazione assolutistica della ricostruzione storica dimentica del presente, mentre in lui  restava nel solco del possibile comunicativo alle orecchie dell’ascoltatore e alle risorse degli strumenti; in Matthey il presente  fu ben vivo e si manifestava tutto nella sua produzione compositiva, nel virtuosismo ardito e chiaramente pianistico della Toccata-Carillon, per esempio, o della Giga, o di quel brano da situare fra i culmini di tutto il Novecento organistico italiano che è il Tempo di Sonata; sta nel linguaggio armonico implementato nel tardo romanticismo e nell’impressionismo delle pagine calorosamente cantabili delle elegie e dei canti nostalgici, nell’arditezza del contrappunto aggiornato alla sua epoca del Pensiero fugato o della Giga “piccola” per harmonium, nell’aderenza a un mondo organario che faceva della ricchezza di suoni una tavolozza creativa, della facilità dei comandi una conquista al servizio della nuova musica e del virtuosismo, delle possibilità combinatorie uno stimolo alla complessità del disegno discorsivo.
Non è semplice entrare nel mondo di Matthey:  non solo le sue partiture sono talvolta delle  ostriche musicali -possiamo assicurare il lettore che non una partitura di Matthey si lascia prendere arrendevolmente-,  non solo le sue campiture sono sovente articolate in lunghi se non lunghissimi discorsi, ma soprattutto le sue musiche esigono le facoltà di un interprete che sia forgiato al calor bianco della sensibilità romantica; molte indicazioni sue indicano “libertà di movimento”, “quasi  a piacere”, “molto espressivo”, denotando quella intensità di sintonizzazione che deve indugiare sui dettagli, sulle sfumature, sui particolari di respiro e di agogica che alla fine sono la sostanza di un brano; tutte le musiche, si sa, perdono qualcosa quando sono eseguite con disattenzione ai particolari, ma quelle di Matthey, a volte assai al di là della immediatezza discorsiva, perderebbero molto  delle loro  confidenze a mezza voce;  Matthey è un musicista che parla da dietro una corazza di alta ideazione e di profonda conoscenza tecnica, le sue partiture non sono mai scontate e abbordabili con facilità perché sono sempre su un livello di  composizione che mai  indulge al semplice o al banale; il suo disegno compositivo non evita la complicazione armonica o la facilità digitale perché nel suo definirsi non segue altri che sé stesso, senza pose né infingimenti o concessioni; l’interprete deve mettere in conto che solo dopo aver padroneggiato gli ardui profili  di un suo brano può scoprire l’elevatezza dei suoi sentimenti, l’ardimento delle sue pose retoriche intessute di miti romantici, la delicatezza delle preziosità timbriche, la sovrana padronanza di complessità armoniche non indifferenti. Brani dall’apparenza intricata, come ad esempio In memoriam, opera della prima maturità,  a poco a poco rivelano le loro morbidezze e le minute espressività quando si attivino modalità smaliziate di interpretazione e avveduti criteri di analisi, e dunque con i rubati e le duttilità che esige un romantico della più bell’acqua e con il senso attento della forma. Non c’è ombra di dubbio che alcune sue partiture potrebbero essere capisaldi dell’educazione dell’organista sia per i contenuti strettamente musicali, sia per l’approfondimento di un ricco  mondo organologico, testimonianze di un alto sapere artigianale  e di un momento organario che ha avuto picchi importanti e inediti  nell’evoluzione  italiana, al di là di comode svalutazione a posteriori che non danno in cambio né musiche di altrettanto spessore  né manufatti di qualche novità.
Per noi, figli di una storia che sembra declinare, la figura di Ulisse Matthey resta indice di un operare autentico, originale, rivolto al futuro, tutto al contrario del nostro presente che ripropone ormai stancamente un passato del tutto ipotetico e nasconde  un vuoto di ideazione e di progettazione con il suo rifugiarsi, per la stragrande maggioranza dei casi,  nella conservazione e nella copia; in Matthey la storia organistica andava ancora costruendosi nell’attualità e la grande musica orchestrale e pianistica era il modello  per creare il nuovo, per apprendere atteggiamenti da rimandare al presente, per arricchirsi  di volta in volta  di ritrovati armonici ed estetici contemporanei dentro a un dialogo osmotico cosmopolita.
Attendendo la raccolta di dati biografici, questa registrazione documenta l’opera originale per organo e harmonium; non vi compaiono le numerose trascrizioni e le opere per organo e  orchestra d’archi; gli strumenti impiegati sono strettamente in relazione con l’epoca e la vita di Matthey, alcuni sono stati recentissimamente restaurati e  rappresentano  momenti di eccellenza della nostra storia organaria per la possibilità che offrono di ospitare la grande musica  internazionale, di esibire tecniche superiori, per la complessità del disegno progettuale, la coerenza  della sua realizzazione e per il ventaglio di opzioni creative a tutto campo che ancora prospettano. La sintonia fra la tipologia, i colori, la capacità di rendere le sfumature di questi strumenti fanno tutt’uno con le composizioni, al punto che non c’è da esitare nell’affermare che Matthey è stato il perfetto e non superato cantore dell’organo tardo romantico italiano, capace di essere grandioso negli effetti, nobile  negli atteggiamenti, sensibile nell’anima,  prossimo al misticismo.
Fausto Caporali

 

 

 

 

Si ringrazia sentitamente:

 

Mons. Vincenzo De Gregorio (Roma)

Davide Stringaro (Tricesimo – UD)

M° Giacomo Gozzini (Chiari – BS)

Marco Chiesa OCD (Arenzano – GE)

Arch. Eugenio Cerri (Olmo – Lodi)

I parroci delle chiese coinvolte

Le Ditte organarie